A fa ‘e struffoli è nu sfizio.

Cumminciamm dall’inizio:

faje na pasta sopraffina,

e po’ tagliala a palline,

cu na bona nfarinata.

Dopp’a frje. Già t’e stancate?

Chest è a parte chiù importante!

Mò ce vo’: miele abbondante

e na granda cucuzzata

(a cocozza nzuccherata).

N’è fernuto ancora, aspiette!

S’anna mettere ‘e cunfiette:

aggrazziate, piccerille,

culurate: ‘e diavulille…

Ma qua nfierno, è Paraviso!

Iamme, falle nu’ surriso!

Comme dice? “Mamma mia,

stanne troppi ccalurie

so’ pesante, fanno male?”

Si va buò,ma è Natale!

LA STORIA DEGLI STRUFFOLI

Gli struffoli sono i dolci più napoletani che ci siano. A pari merito con la sfogliatella e la celebre pastiera, e certo più del babà, di origine polacca. Chi ha inventato gli struffoli? Non i napoletani, nonostante la loro proverbiale creatività. Pare che nel Golfo di Napoli ce li abbiano portati i Greci, al tempo di Partenope. E dal greco deriverebbe il  nome  “struffolo”: precisamente dalla parola  “strongoulos”, arrotondato. Sempre in greco, la parola “pristòs” significa tagliato. Per assonanza, uno “strongoulos pristòs”, cioè una pallina rotonda tagliata: vale a dire lo struffolo, nella Magna Grecia è diventata “strangolapre(ve)te”: il nome che si dà a degli gnocchetti supercompatti, in grado di  “strozzare” gli avidi membri del clero. Poiché la penuria di certezze stimola la fantasia, qualcun altro si è inventato che struffolo derivi da strofinare: il gesto che compie chi lavora la pasta, per arrotolarla  a cilindro prima di tagliarla in palline.

C'è anche chi ritiene erroneamente che lo struffolo si chiami così perché “strofina” il palato: nel senso che  lo solletica, per la sua bontà. E chi pensa addirittura, che la radice di struffoli sia da collegare allo strutto (il tipo di grasso con cui anticamente venivano fatti e in cui venivano fritti) Se non è ancora ben  chiaro da quale etimo – né da quale regione - gli struffoli provengano (c’è pure chi li fa nascere in Medio Oriente),  è viceversa chiarissimo dove vanno: prima nelle nostre pance, e poi sui fianchi (se ne abbiamo ingurgitati troppi). Ben noto è anche il loro percorso: gli struffoli si sono spinti in tutta l’Italia Centromeridionale.

Due famosi trattati di cucina del 1600, il Latini e il  Nascia, citano come “strufoli – o anche struffoli-  alla romana” dei dolci preparati alla stessa maniera degli struffoli napoletani.   In Umbria e in Abruzzo lo struffolo si chiama cicerchiata, perché le palline di pasta fritta legate col miele hanno la forma di cicerchie: legumi che è meglio non mangiare per via dei loro semi velenosi che possono provocare paralisi e allucinazioni  (in certe zone d’Italia,  “ma che, hai mangiato cicerchie?” equivale a dire “hai le traveggole?”).

Quindi, due nomi (struffoli e cicerchiata) per uno stesso dolce. Ma pure  l’opposto: due dolci diversi con lo stesso nome. Struffoli, per l’appunto.

Gli abitanti della Tuscia, regione intorno a Viterbo, chiamano ancora oggi struffoli  quelle frittelle di pasta soffice e leggera che altrove vengono definite “castagnole”, e si mangiano a Carnevale.

Gli struffoli si trovano pure a  Palermo, con qualche piccola ma non sostanziale variante, una delle quali consiste nella perdita di una f (“strufoli”): le Sicilie erano due, ma lo struffolo rimaneva unico.

Nella preparazione degli struffoli molto è lasciato al naso (hanno un bell’aroma),  ma nulla è lasciato al caso. Ciascuna pallina di pasta fritta è  un capolavoro di ingegneria domestica, selezionato in centinaia d’anni di sperimentazione nelle cucine di ogni tipo.

Perché il vero struffolo dev’essere piccolo? Perché così aumenta la superficie di pasta che entra in contatto  col miele, e il sapore ne guadagna. E questo avviene soltanto se si confezionano delle palline di pasta di piccole dimensioni. 

Il miglior rapporto pasta/miele migliora i rapporti familiari, almeno durante le festività natalizie. Gli struffoli migliorano la qualità della vita.  Lo fanno adesso, e  figuriamoci quanto lo facevano  prima: fino a pochi anni fa la vita media era molto più breve, e in media, molto  più grama. Si mangiava poco e male, fuorché a Natale e alle feste comandate.

I bambini, poi! Di merendine, nemmeno l’ombra. L’unica consolazione, per loro (e per tutti gli altri…)  erano i dolci come gli struffoli: che  non fanno male, e non  vanno a male, in quanto  si conservano a lungo.

Gli struffoli, come tutti gli evergreen, nella loro sostanziale immutabilità presentano molte varianti: regionali, familiari  e personali. In questo sono un po’ come le polpette: anche se gli ingredienti sono esattamente gli stessi, mangerete tanti struffoli diversi quanti sono le case in cui vi verranno offerti (o le pasticcerie in cui li acquisterete).  

Vi accorgerete che ciascuno ritiene che i “propri” struffoli siano quelli autentici: quelli della tradizione, tramandati da una nonna, una mamma o – ancora meglio! – da una zia monaca. Quest’ultima, quando c’è, è una garanzia: a Napoli un tempo gli struffoli venivano preparati nei conventi, dalle suore dei vari ordini, e recati in dono a Natale alle famiglie nobili che si erano distinte per atti di carità.

Come accade a tutte le ricette ormai abbondantemente codificate, che sembrano non presentare punti oscuri, gli struffoli sono insidiosi: nascondono infatti molti segreti, spesso custoditi gelosamente.  

Uno di questi sta nel miele: che dev’essere abbondante. Senza di lui,  un dolce non può definirsi veramente tale. Come simbolo della Dolcezza, il miele è un Mito: i Gemelli Indiani Ashvin, messaggeri degli Dei, mangiano miele nel cielo mattutino, e la Bibbia racconta come  Sansone estraesse dall’interno del leone da lui ucciso un favo d’api e di miele. La cosa lo mise di buon umore, tanto da spingerlo a formulare  un indovinello: “dal divoratore è uscito il cibo, dal forte è uscito il dolce” (Giudici, 14).

Morale: dalla morte nasce la vita. A proposito di nascita, il  corpicino del Bambino Gesù  viene definito “roccia che dà miele”.

Non è quindi un caso che gli struffoli siano un dolce tipicamente natalizio.

Ecco un’altra regola aurea: negli struffoli non esistono elementi accessori. Tutto è importante. Dai canditi ai diavolilli.

Nella ricetta degli struffoli trovano posto arancia e cedro candito, ma la parte del leone (come nella pastiera e nella sfogliatella) la fa la zucca candita: la famosa "cucuzzata". Se non si trova già pronta qui ci sono le istruzioni per farla.


LA LEGGENDA DELLO STRUFFOLO

Quando suonò il campanello, Pisolo si svegliò di soprassalto.

Chi mai si permetteva di infrangere la quiete della loro casetta nel bosco, in quei giorni di festa?

Eolo sbuffò: “Sarà un altro di quei dannati venditori di enciclopedie a rate. L’ultimo finì per comprarsi quella che avevamo in casa. A noi non serviva affatto”.

Quel bel tomo di Dotto, che leggeva in poltrona al lume di un fungo a forma di abat-jour, sollevò lo sguardo con compiacimento, per abbassarlo subito dopo con modestia.

Sulla porta era comparso un esserino piccolo, ma piccolo, e grassottello.

La sua voce era una specie di pigolio.

“Aiutatemi, vi prego! A Natale tutti dovrebbero essere più buoni, e io, non per vantarmi,  buono lo sono davvero. Invece la gente proprio in questi giorni con me diventa cattivissima. Mi insegue, mi annusa, mi palpa.

Per favore, tenetemi qui con voi. E’ solo per qualche giorno: dopo l’Epifania, nessuno mi guarderà più fino al prossimo Natale”.

“Dio mio, come sei DOLCE! “ strillò Gongolo, dopo avergli stretto la mano, e aver assaggiato il liquido ambrato che gli era rimasto sulle dita.

“E’ che scappando sono caduto in un barattolo di miele. Speravo che questo avrebbe  scoraggiato i miei inseguitori, e invece no. Per fermarmi mi hanno tirato dietro di tutto: pezzi di zucca, di arancia e di cedro candito…..”

“Vedo, vedo - lo interruppe Brontolo, di malagrazia. - Ce li hai tutti appiccicati addosso, conficcati dentro tutto quel miele. Avresti bisogno di un buon bagno, per tutti i diavoli!”

“Vero, vero, vero” gridarono in coro, dal mare mieloso, i diavolilli colorati.

“Be’, che vogliamo fare ragazzi? Lo lasciamo entrare? Non vorrei avere dei guai con  Bianca”, disse  Gongolo.

“Ma no – intervenne Dotto. Fino a quel momento non aveva aperto bocca. - Vedrai che sarà contenta di averlo come ospite d’onore al pranzo di Natale, questa….pasta d’uomo”.

“Grazie, di cuore – fece l’esserino, abbassando il capo.  Nell’atto di inchinarsi sembrava ancora più rotondo. “Vi prometto che non vi darò troppo fastidio…..in fondo si tratta di pochi giorni”.

“…..Troppo pochi”,  mormorò Dotto, come soprapensiero.

“Cucciolo, fa’ riscaldare un po’ d’olio nella padella…..è quasi ora di cena.

E tu fatti avanti, una buona volta! Devi essere di strutto: entra, dunque. Questo Natale mangerai con noi: anzi, noi mangeremo con te. Sarai l’ottavo nano. Ti chiameremo….sì, ti chiameremo Struffolo”.