28/03/2007
                                                                                                                                                   
                                                                       ALLO STATO EBRAICO  di Enzo Faenza
                                                                                                                                            
Quella sera di dicembre che don Vito Santuccio, nella sua casa-container di Laviano, mi comunicò con grande serenità d'animo, ma anche con solennità, che lui, i suoi vitelli, li teneva "allo stato ebraico", la mia vita ebbe una svolta. Fino ad allora avevo cercato un significato, un senso all'esistenza e credevo di esserci riuscito. Avevo letto Sartre , Camus, Schopenhauer, Buddha, Gesù Cristo e Gandhi, Marx e Nietzsche. Jhon Fitzgerald Kennedy e la "nuova frontiera", Einstein e la "teoria della relatività": tutto mi era sembrato opinabile ma comunque possibile, tutto sempre rapportabile ad una logica. Ma quella frase di Don Vito, quella sera…"allo stato ebraico"…provocò in me un improvviso collasso, un black-out cerebrale, un reset della conoscenza e della coscienza. Cosa voleva mai significare quella definizione così misteriosa!? In verità, fino ad allora, mi era capitato di sentirle, e leggerle, di tutti i colori: dalla Polizia che arrivava a sirene "spietate"  al "patè" d'animo, dalla marmitta "paralitica" ai "trecriceti"  e al "polisterolo" nel sangue, dalla sibilla "cubana" alla possibilità reale di "erezioni" anticipate, dal dormire in posizione "fatale" al quanto mai sgradevole choc "anofilattico". E ancora l'antico "cave canem" tradotto efficacemente dal custode di una scuola con: "Attento al cano ca' mozca alla sacresa" e l'insegna di un fruttivendolo, forse anche pittore, che proponeva "fichi tinti"! Dapprima, allora, cercai negli occhi di don Vito, nel suo volto di contadino bruciato dal sole, un percorso, una strada che mi conducesse a capire: egli aveva ingenuamente travisato, sostituito il termine "brado" con l' assonante "ebraico" o dietro e dentro quella sua frase c'era qualcosa di più, una speranza, un mito, un valore "aggiunto"?! Ero di fronte ad un banale errore linguistico, di un dignitoso contadino, o ad un  complesso concetto filosofico? In pratica i vitelli di don Vito semplicemente  vivevano liberi, da catene o staccionate, o godevano di una dimensione "zooesistenziale" privilegiata perché semmai di origine e cultura ebraica?! Restai ancora un po' di tempo con don Vito, nel suo container. Egli, davanti al focolare, quasi a fatica, mi "contò" della sua vita trascorsa prevalentemente a zappare, a zappare una terra dura e poco fertile, "ossuta" come l'avrebbe definita Manlio Rossi Doria. Mi racconto' di quando era bambino e della sua voglia di andare a scuola ma, questa, o' paese, era arrivata solo qualche anno dopo. Di quando vide per la prima volta il mare, a Salerno. Di quando vide per la prima volta la moglie Filumena ancora ragazzina, alla festa del paese. Di quando aveva visto per la prima volta un trattore, alla fiera. Ma anche questo, nella sua vita, era arrivato in ritardo. "Don Viciè ", mi confidò sottovoce, "sapete che vi dico: alla fine che differenza c'è a campà zappann o sturiann, facendo il contadino o il maestro… nella vita, per ognuno di noi, c'è sempre qualcuno o qualcosa d'importante che arriva "aropp", troppo tardi!". Il caldo del focolare conciliava  ricordi e sogni. Ben presto io e don Vito ci ritrovammo con un kippur in testa a pilotare un grosso trattore, ad arare terreni sconfinati e fertili, a rincorrere allegramente mandrie di vitelli che scorazzavano impetuose in immense praterie. Mi svegliai di soprassalto quando sognai che anche i bovini portavano il kippur!? Don Vito dormiva ancora, sulla sedia, davanti al focolare. Il suo viso era sorridente, sereno, illuminato a tratti dalla luce tenue delle fiamme: peccato che anche lui era arrivato tardi… nella mia vita!
                                                                                       





Il PASSO DEL BRADIPO
                                                                                                                                                                                                   
       UN FUTURO DA INNAFFIATORE…DI CERVELLI  di Enzo Faenza          

L'Italia, un paese di santi, poeti, navigatori e…innaffiatori di cervelli! Non parlo di Silvio, il doppiopetto, lo stirato, l'immortale, che ci prova ad idratarci le meningi, ogni giorno, con le sue televisioni. Parlo di un uomo che, più o meno una volta al mese, rifonde di formalina un recipiente nel quale viene conservato da anni il cervello di un nostro simile a suo tempo definito "criminale"!       Siamo nel Museo criminologico di Roma e qui è esposta la cosiddetta "materia grigia" di Giovanni Passannante, un nostro quasi conterraneo, di Savoia di Lucania, che il 17 novembre 1878, attentò a Napoli alla vita di Umberto I di Savoia con un temperino! Giovanni era un cuoco, un autodidatta che aveva letto gli scritti di Mazzini e Garibaldi e che propugnava la "repubblica universale" in cui gli anziani avrebbero avuto diritto ad una pensione e le donne ad un assegno di maternità. Giovanni era una persona semplice, uno di quegli uomini che non la fanno la Storia ma che la subiscono! Come l'hanno subita tanti uomini semplici e tanti meridionali. E così, dopo l'ingenuo attentato, egli fu arrestato e, per ordine dei Savoia, rinchiuso in un carcere nell'isola d'Elba, in una cella sotto il livello del mare. Per il suo "folle" gesto anche i  familiari, geneticamente affini, furono perseguitati e rinchiusi in un manicomio criminale. I suoi compaesani, intanto, per la vergogna, s'affrettarono addirittura a cambiare il nome originario del paese da Salvia nell'attuale Savoia di Lucania. Quando nel 1910 il Creatore, pietosamente, gli staccò la spina, Giovanni continuò a subirla la Storia dei potenti, anche nella morte. Il suo cranio, seguendo le illuminate teorie del Lombroso, fu segato per poter  esporre,  nel nostro museo, il suo "particolare" cervello di criminale!? E questo, dopo tanti anni, è ancora lì e lo si può "ammirare" pagando appena 2 Euro. In verità otto anni fa, l'allora ministro di Grazia e Giustizia, Diliberto, in seguito ad una pressante campagna pro sepoltura dei resti di Giovanni, promossa soprattutto dall'attore lucano Ulderico Pesce, aveva firmato un nulla osta ad hoc. Sembra, però, che una locale lobby "savoiarda" abbia fatto di tutto, in questi anni, per "tenere su" dalla terra il nostro povero Giovanni! In questi giorni, poi, il sindaco, la "margheritina Rosina" Ricciardi, ha avuto un vero colpo di genio: perché non continuare ad esporre il cervello di Passannante nel castello del paese!? Un idea davvero eccezionale che addirittura mi suggerisce un progetto molto ambizioso che di certo rappresenterà una svolta anzi la "svolta" per il nostro abbandonato sud. Se, infatti, il nostro Giovanni è stato ritenuto un efferato criminale per un tentato omicidio "al temperino" e degno della speciale ed eterna esposizione, quanti cervelli di nostri contemporanei, "criminali" di fatto, meriteranno nel futuro un posto nel nostro museo? Io non ho alcun dubbio: per la quantità e la qualità dei crimini da questi commessi, è assolutamente necessario costruire un nuovo, un grande, un maestoso Museo criminologico proprio a Savoia di Lucania"! Massima "ospitalità" s' intende, porte aperte a tutti: de criminibus non disputandum est!  Pippo Baudo? Perché no! E Emilio Fede e Mino Reitano e Totò Riina e Bruno Vespa e Umberto Bossi e Castelli e  Buttiglione e Vittorio Emanuele I, II, III, IV e V e le  "giovani promesse" Bertolaso e Bassolino!? Si potrebbe, tra l'altro, anche modernizzare, in qualche modo, l'ormai antiquato istituto. Si potrebbe, ad esempio, corredare ogni postazione "cerebrale" di quelle cassettine che si usano in chiesa, quelle poste davanti ai quadri dei santi o delle madonne, quelle nelle quali introducendo una monetina si accende una candela! Nel nostro moderno museo, invece di far accendere la candela, si potrebbe far partire una clip, di pochi minuti, che riproduca momenti di vita dei nostri simpatici, contemporanei "criminali"! Che goduria sarebbe rivedere la Condoleezza  Rice, e il suo cranio così sexy, con il suo inconfondibile passo dell' "oca" andare in contro al nostro Massimo e fargli un intrigante occhiolino! E Bush scendere sorridente dall'elicottero presidenziale, con il cagnolino tra le braccia, tutti e due rigorosamente in cappottino di cachemire, mentre tanti giovani marine, tanti ex contadini, muoiono in Iraq. E quegli altri campioni di Putin e dei terroristi ceceni passeggiare spensierati tra le 186 tombe dei bambini trucidati nella scuola di Beslan. E il nostro Calderoli, con il suo sorriso, indiscutibilmente criminale, slurpare frustando Luxuria. E ancora il nostro De Luca, sì Vincenzino, proprio lui, rincorrere assatanato i filippini per via Mercanti dribblando le signore salernitane impellicciate(è furbo lui: i senegalesi, statura media 1.90, li fa inseguire dai propri vigili!) Si potrebbe creare un luogo delle "muse" diviso per epoca, per nazione, per professione. Altro che allargare la base Nato di Vicenza: il nostro governo, cosiddetto di "sinistra", potrebbe finalmente dimostrare all'opposizione di essere  impegnato nella realizzazione di una grande, grandissima opera. Per ospitare tutti i cervelli dei nostri "criminali", bisognerebbe progettare una struttura immensa, dotarla di infrastrutture tanto complesse da far impallidire anche Renzo Piano. Assumendo prioritariamente tutti i muratori ed operai del sud Italia, per una cinquantina di anni si potrebbe sanare la piaga della disoccupazione ed anche inferire un colpo mortale a mafia e 'ndrangheta sottraendo a queste tanta manovalanza! 
Si potrebbe, in definitiva, finalmente, risolvere la questione meridionale!
Ma il progetto potrebbe avere ripercussioni economiche e sociali anche a livello  internazionale. Signor Sindaco Rosina, e margheritina, lei potrebbe, infatti, indire il più grande, il più stupefacente concorso pubblico della storia dell'umanità: "Concorso per titoli ed esami a numero 1.000.000.000 di posti a tempo indeterminato di innaffiatore di cervelli". Lei così, di certo, già in vita, passerà alla Storia, quella dei potenti! Ma anche nella morte, che trascina via ogni vanità umana, lei potrà stare tranquilla perché ci penserò io a tenerle umido il cervello ogni giorno: mi sto già cercando una raccomandazione per superare il suo biblico concorso! Levis sit tibi terra, Giovanni…



 



Il PASSO DEL BRADIPO
05/05/2007

Il PASSO DEL BRADIPO
08/07/2007
IL PILOTA E IL MARINAIO di Enzo Faenza

La nostalgia è il dolore per il ritorno. La nostalgia è il dolore per il desiderio del ritorno. La nostalgia è quel lieve,silenzioso dolore che ti porti dentro per alcun giorni, per tutta la vita, per strada, in treno, in un bar mentre sorseggi un caffè. Si può avere nostalgia di una stagione, di un luogo, di una persona, di un profumo, di un sapore, di una carezza: si può avere nostalgia di tutto ciò insieme. La nostalgia è il più misterioso dei sentimenti umani. E' l'unico  ti  dona l'ubiquità del corpo rispetto all'anima: meravigliosa l'immagine dell'indiano di "Qualcuno volò sul nido del cuculo" che mentre fa le pulizie nel manicomio pensa ai salmoni che risalgono il fiume della sua terra! Ma la nostalgia è anche una scelta di vita: possiamo decidere di farla nascere, di farla crescere nella nostra vita interiore o ucciderla subito, prima che abbia una vita e possa diventare, poi, dolore. Eduardo era un giovane insegnante quando un  brutto giorno scoppiò la guerra, la seconda guerra mondiale. In pochi giorni, da una pacifica cattedra di una scuola di provincia, si ritrovò su un rombante aereo militare, una macchina di morte. Iniziò per lui un'inaspettata odissea che lo portò anche in un paese straniero. Qui Eduardo, tra un volo e l'altro, tra un bombardamento e l'altro, conobbe Josephine e s'innamorò di lei e lei si innamorò di lui. E si amarono perdutamente, Josephine ed Eduardo, perché i grandi sentimenti sempre sopravvivono ad ogni barbarie umana. La guerra poi finì. Il giovane ufficiale forse promise alla giovane ragazza che sarebbe tornato di lì a qualche giorno:giusto il tempo di riabbracciare i propri cari, di assicurarsi che loro erano ancora lì, in quel lontano paesino del sud Italia. Ma invece di tempo ne passò tanto…quanto ne bastò non per dimenticare quel grande amore ma quanto ne fu necessario per ospitarne nel cuore un altro possibile. Eduardo sposò un' altra donna e Josephine sposò un altro uomo. Ancora altro tempo passò, tanto. ancora, ma l'ex giovane ufficiale e l'ex fanciulla straniera continuavano a portarsi dentro quel lieve dolore, quel dolce sentimento che d'improvviso può cambiarti la vita. Un giorno, Eduardo, ormai vecchio, rimasto vedovo, mentre sorseggiava un caffè, decise di partire, di partire subito e raggiungere Josephine, per tornare, per tornare ad amarla!                                      E la ritrovò Josephine, vedova pure lei, con qualche ruga ma sempre tanto bella e tanto dolce. E tornò ad amarla e tornarono ad amarsi.
Peppe era un marinaio. La sua vita, a contatto del mare, nel mare, lo aveva reso un uomo complicato. I lunghi mesi di navigazione, le smisurate distanze percorse, gli avevano provocato una sorta di mutazione sensoriale: per lui il tempo era fermo, immobile, e cento miglia erano nemmeno cento metri. Era calmo e silenzioso come il mare in bonaccia  e se parlava, lo faceva solo ad una certa ora: dopo mezzanotte. E allora raccontava, raccontava le sue tante avventure di mare. I suoi bagni a prua della nave mentre i pescecani erano distratti alla poppa dal lancio di piatti, le tante risse nei locali notturni di questo o quel porto, l'amore impossibile per Blanca, la bellissima Blanca, ex contadina dell'entroterra messicano, puttana ad Acapulco. Raccontava delle lunghe ore a guardare il mare abbandonando ogni pensiero, ogni nostalgia, alla sua azzurra infinità. "Guardare il mare è come guardare nella propria anima" mi diceva. Io ascoltavo, quel particolare amico, in religioso silenzio e nella notte, per incanto, la sua vita si mischiava alla mia. Proprio come, alla foce, un fiume al mare. Dopo diversi mesi di convivenza Peppe quel giorno sarebbe andato via, le nostre vite si sarebbero divise e chissà per quanto.                     Con la sua auto si fermò all'uscita dei Camaldoli e deciso mi sussurrò: "Immagino cosa vuoi dirmi: dammi il tuo numero di telefono, scambiamoci gli indirizzi, ci rivediamo la settimana prossima! Apri la portiera e vai via, adesso, subito, senza voltarti indietro, senza soffrire: io e te non ci vedremo mai più! Da quel giorno cammino, lentamente, senza mai voltarmi! Nella mia vita, indietro, c'è il dolore di tante perdite, avanti la tenue felicità di essere, ogni giorno, un "anima-le utopico".  E se un giorno dovesse finire anche questa stagione de "icentopassi", ricordiamoci con affetto ma, mi raccomando, senza mai voltarci!


Il PASSO DEL BRADIPO
04/09/2007
IL GRANDE BRUCO di Enzo Faenza
Eravamo ragazzini e la sera, stanchi dell'andare avanti e indietro avanti e indietro per la via dello struscio, ci allungavamo alla stazione ferroviaria.
"Battipaglia, stazione di Battipaglia, per Sicignano-Lagonegroo si cambiaa!" La conoscevamo a memoria quella litania del capostazione e  addirittura ci divertivamo a ripeterla con lui, in coro, tappandoci il naso per renderla nasale al punto giusto. Su una delle tante panchine, timidamente, ci raccontavamo le nostre esperienze, le nostre emozioni, i nostri dubbi di adolescenti: dal sorriso sornione di Paola, la dirimpettaia coetanea carina, alla minigonna da capogiro della catechista, dalle incomprensibili cause della fame nel mondo all'ultimo goal di Gigi Riva. Era la stagione delle "prime volte", il tempo in cui ci imbattevamo in certe situazioni esistenziali nuove per noi e dovevamo, tra tabù e perbenismo, crearci una "visione della vita", fare le prime scelte. Gli adulti erano assenti: erano, forse anche giustamente, discepoli ortodossi di quel Freud che ritiene che "gli uomini non possono restare per sempre bambini, devono andare ad affrontare la vita ostile"! E non c'erano nemmeno quella sera, su quella panchina, quando inaspettatamente si concretizzò  una nostra "prima volta", quella della politica. Improvvisamente da nord sentimmo un vocio indistinto, progressivamente sempre più forte e più vicino: era come se, miracolosamente, si stesse avvicinando, tutta intera,  la curva sud di uno stadio!? Ad un certo punto cominciammo a distinguere addirittura una musica e  dei canti!? Ci guardammo negli occhi e  incuriositi e straniti da quella singolare situazione ci alzammo tutti insieme dalla panchina per scorgere verso Salerno, per tentare di capire. Cosa stava succedendo tra quelle rotaie fino a pochi attimi prima malinconiche e silenziose, tra quei binari che comunque erano stati spettatori, la mattina del 9 aprile 1969, di uno dei momenti più difficili della nostra storia nazionale? Una violenta carica delle forze "dell'ordine" contro gli operai in sciopero per la chiusura del locale "tabacchificio" era stata respinta, allora, da una fitta  sassaiola di quest'ultimi e aveva dato inizio ad un'istintiva rivolta popolare. La disperazione degli operai e dei cittadini insieme, "disordinò", quel giorno, clamorosamente, le forze di uno Stato che ancora oggi, dopo quaranta anni, progetta per il sud solo illusioni e costringe ancora tanti giovani ad emigrare.                  Ma ecco ad un centinaio di metri, sulla nostra strada ferrata, far capolino uno strano mostro, lungo, serpeggiante, con tante braccia che fuoriuscivano e s'agitavano da ambo i lati del suo corpo. Il sorprendente animale era  bardato dalla testa alla coda di tante, grandi bandiere rosse che ondulavano schiaffeggiate ma dolcemente dal vento. Avanzava  imperioso, inarrestabile, orgoglioso, festante, schiamazzante, verso di noi. I suoi occhi erano grandi e luccicanti! Era il "grande bruco"! Era il treno degli emigranti, uno dei tanti convogli "speciali" per i nostri concittadini che dalla Germania tornavano a votare ai propri paesi del sud. Essi erano quasi tutti affacciati ai finestrini e sbracciandosi cantavano in coro: "avanti popolo alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa…" Una tromba e dei piatti, chissà da quale parte del treno, accompagnava la loro gioia collettiva, la loro grande allegria. Questa subito impregnò l'aria, i muri, ogni oggetto e ogni persona che toccava nella stazione e volò leggera, da quelle bocche spalancate, da quei volti rugosi e bruciati dal sole, anche ai nostri cuori ingenui di ragazzini…
Quando il capo stazione, imperterrito, più "nasale" che mai, rispettoso della tradizione, annunciò: " Per Sicignano si cambiaa", fu accolto da uno sciame di fischi e di vaffà: per una sola volta nella sua vita, una sola, avrebbe dovuto intonare quantomeno "Bella ciao"! Ma appena "il grande bruco", un po' goffamente, si mosse per ripartire, i fischi si mutarono nuovamente in canto:"Bandiera rossa la trionferà…lallarallà-rallà-a"!



30/12/2007
Il PASSO DEL BRADIPO
                                                                                                              
IO E ANTONIO

Le parole spesso sono una vanità. Forse ad esse è preferibile il silenzio, forse è più giusto lasciare i propri ricordi nella vita interiore…    Avevo poco più di un anno e Antonio, il garzone che accudiva le
vacche della fattoria dove viveva la mia famiglia, mi teneva in braccio e mi faceva smorfie mentre mia madre mi imboccava la pastina. Come mamma si distraeva, lui furtivamente mi leccava il mento, il viso per mangiare gli acini di pasta che vi rimanevano. Mamma lo sgridava sbigottita: Antonio si vergognava, abbassava lo sguardo,per un attimo, ma poi era pronto a leccare ancora. Passò un po' di tempo e Antonio, sapendo che mamma,  dopo il 27 del mese, nascondeva lo stipendio di papà nel comò della camera da letto al primo piano, si licenziò e si nascose nella soffitta per poterlo "prelevare" appena possibile. Io forse sentivo la sua presenza e cominciavo a piangere a dirotto: allora lui, per evitare che il mio pianto attirasse qualcuno al piano di sopra, scendeva dal "suppigno" e mi cullava finché non smettevo. Appena, anche quel mese, lo stipendio venne nascosto tra la biancheria, Antonio lo rubò e scappò via dalla fattoria. Lo arrestarono qualche giorno dopo mentre scorazzava per il paese su una moto sfavillante. Al carcere di Salerno, dove fu rinchiuso, solo i miei familiari andarono a fargli visita. Ogni settimana, finché non uscì! Antonio tornò a lavorare in fattoria ed era lui a portarmi, in motoretta, all'asilo,in città, qualche anno dopo. Fu a lui che, sillabando, confidai le torture delle suore: quando ci mettevano in castigo dovevamo stare con le mani unite sulla testa per minuti e minuti interi! Se poi uno si faceva la "pipì sotto" lo costringevano a girare per tutte le classi, come un' appestato, a mostrare le mutandine bagnate. Fu ad Antonio che chiesi di non portarmi più alla scuola "materna", in città, e di farmi rimanere in campagna. Lui, per la rabbia, accelerando a più non posso per via XX settembre, gridò a me e al vento che non poteva accontentarmi perché non era mio padre ma mi promise che sarebbe venuto a minacciare suor Guiderma. Che l'avrebbe "abbuffata di paccheri"!  So che non venne solo perché non ebbe il tempo di farlo: lo arrestarono un'altra volta, mentre rubava alcune magliette durante una tappa del Giro d'Italia. Quando uscì dal carcere, Antonio non tornò più in fattoria: il mondo contadino, in quegli anni, era cambiato velocemente, forse troppo. Nella stalla non c'erano più né Carolina né le sue compagne. Lungo il viottolo non c'erano più le due piantine con quelle tre, quattro fragole tanto saporite: nei campi ce n'erano a centinaia con migliaia di fragole, senza sapore. Antonio aveva trovato lavoro in un garage in città. Egli non aveva un'auto, anche perché gli avevano tolto la patente, ma ne rimediava una di qualche cliente del garage e, approfittando delle strade deserte del primo pomeriggio della domenica, veniva a "trovarci" in campagna. Portava sempre una grande, esagerata guantiera di sfogliatelle, forse per "esorcizzare" i giorni della fame. Era contento di ritornare nei luoghi della sua giovinezza dura ma felice, era contento di rivedermi molto più alto di lui. Poi Antonio non venne più…per il solito male incurabile. Quando, a volte, però,  sempre un pò sornione, egli torna nei miei pensieri, mi sfiora un "sospetto"…che io sia cresciuto "sano e forte" perché la sua saliva mi ha dotato di anticorpi miracolosi! Quelli della solidarietà, quelli della condivisione della povertà, quelli che ti fanno "capire" che cos'è la fame…anche se non l'hai mai provata.


Il PASSO DEL BRADIPO
02/02/2008
Che vvuò ?

Quella sera, in quel bar del Vomero, improvvisamente la situazione diventò critica. Due o tre imbecilli avevano capito che Mario, e di conseguenza io che ero con lui, non eravamo persone normali: eravamo "pazzi"… e cominciarono a schernirci. Stavo istintivamente abbozzando una reazione quando Mario, con una calma carismatica, mi disse: "Ora dobbiamo correre!" Uscimmo dal locale ed iniziammo a correre, insieme, l'uno a fianco all'altro, verso non so dove e per quanto tempo. Quella sera fu l'unica volta che Mario espresse una un'intenzione, che "emise", dal suo corpo, un segnale che potesse determinare un cambiamento, una novità per le nostre vite.  Fu l'unica volta che egli manifestò un sentimento. Forse in un luogo lontano, irraggiungibile, della sua anima, era sedimentata, inerte, un po' di quella polvere magica che noi, uomini della "normalità", chiamiamo "amore". E forse per amore che egli, in quel momento difficile, voleva proteggermi dalla cattiveria di un mondo che forse, un tempo, aveva anche conosciuto!? Mario era un uomo alto, forte, con i capelli corti e la barba lunga. Lo avevo incontrato un mattino, nei freddi viali del II Policlinico, a pochi passi dalla Clinica Psichiatrica. Era seduto su un muretto e con il palmo di una mano chiuso, egli, ossessivamente, ripeteva il gesto del "che vvuò? Che vvuò? Che vvuò? Il suo volto era pietra: assoluta assenza di ogni  mimica facciale. Ero di fronte a lui ma era come se io gli fossi invisibile. Tentai di farmi notare, di apparirgli in qualche modo, di provocare una sua reazione ma… niente!? Egli continuò in quel "che vvuò, che vvuò, che vvuò!   Mi rassegnai e con la curiosità di un bambino, sentendomi  un pò Pinocchio, disertai di fatto ogni mio impegno con la mitica realtà e mi sedetti accanto a lui. Da quel giorno, per tanti giorni, vivemmo insieme. Ma "cosa" vivemmo ancora non so: semplicemente il fluire biologico delle nostre vite o un'esperienza "umana" irripetibile e indescrivibile. La vita di Mario, e in quei giorni anche la mia, erano silenzio assoluto, continuo. Solo sguardi. Molti anche nel vuoto. Le nostre vite erano immerse nell' immutabilità: erano l'immutabilità. Veniva il giorno e poi veniva la notte e poi veniva il giorno e poi veniva ancora la notte. Erano assoluta indifferenza. Verso tutto e tutti. Un albero era uguale ad un palazzo, un palazzo era uguale ad un cavallo, un cavallo era uguale semmai ad un vigile urbano. Ed io ero uguale a lui e lui era uguale a me. E chissà io chi ero o cosa ero per lui e chissà lui chi era o cosa per me!? Il mondo c'era ancora, di certo: era lì, oltre la porta o la finestra, ma era inutile, banale, non serviva a niente. Certamente non serviva a noi due. Esistevano ancora, di certo, anche gli uomini… con le loro azioni, le loro gioie, le loro angosce, i loro sentimenti: ma  questi avevano un reale significato o erano solo una stupida invenzione degli uomini stessi? E anche l'amore, questo sentimento tanto cantato e decantato, non era forse solo un escamotage, diabolico o divino, per la nostra ripetitiva e stupida riproduzione?E questi uomini, in fin dei conti, erano esseri liberi o schiavi di molecole altalenanti, talvolta assillanti, definite ormoni?      A volte, durante la notte, Mario si agitava, gridava frasi incomprensibili e muoveva il corpo come in immaginari amplessi. Biascicava disperatamente, con voce grave, sempre più alta, il nome di una donna: "Sisina, Sisina, Sisinaa!" E poi rideva forte, forte, forte, come per deridere il suo testosterone o qualche "antico amore".          A volte ridevo anch'io con lui, forte, pur non sapendo perché.   Quando, dopo diversi mesi che ci eravamo lasciati, incontrai Mario nel bar del policlinico, gli corsi incontro per abbracciarlo ma lui forse non mi riconobbe…forse…Continuò nel suo gesto ritmico: che vvuò, che vvuò, che vvuò!? Il suo volto rimase pietra.
                                                                                                                                                                                                         


Bellella

"Uè Bellella" disse il chiattone appena entrato nel bar "damme nu bombolone  gruoss  cumme a me e bello cumme a te! Bellella era la commessa di uno dei tanti bar di Napoli. Aveva più o meno 16 anni ed erano 16 anni, più o meno, che era commessa, in quel bar. Anche la madre Lucia, infatti, anni prima, aveva svolto le stesse mansioni nello stesso locale. L'aveva amorevolmente portata in grembo proprio dietro quel bancone porgendo ai clienti ora una riccia, ora una frolla, ora una riccia ora una frolla fin quando, una sera, piegata sulle gambe, pallida in viso, aveva esortato il padrone del bar: "Don Ciro aiutateme, aiutateme! Sto parturenn… purtateme o Loreto Mare!" Non c'era mai stato per lei un marito e non ci sarebbe mai stato, per Bellella, un padre. Che farne poi di un padre quando ad adottarti sono tante e tante persone, tutti i clienti del bar!? "Lucia, Lucia, Bellella si sta lassann a camminà!?"Lucia come cresce bella tua figlia, è nu bisciù!" "Bellella, piglia nu cornetto o' zio che mamma tene accheffà!"
E così Bellella era cresciuta, "bellella" veramente, dietro quel bancone. Ma per un beffardo scherzo della Natura, forse per una distrazione del "pataterno", certamente causata da quel buon odore di caffè, o forse per un eccesso di zelo di Darwin, Bellella si era fermata ad 1.50 di altezza: giusto quanto bastava per fare appena appena apparire la sua testa al di sopra del ripiano del banco! Lei, le sue "pari opportunità" le viveva,  sempre lì, dietro quel mobile, ora spostandosi  due metri a sinistra verso la pasticceria fresca, ora due metri a destra verso quella secca. Tra un pacco di biscotti ed uno di caramelle Sperlari, esposti sullo scaffale di fronte, Bellella, poi, riusciva anche ad intravedere un pezzettino di mondo, fuori del bar. Ma quei pochi centimetri a lei bastavano, erano addirittura tutta la sua vita: in quel magico rettangolo, infatti, ogni mattina compariva Umberto, un giovane contrabbandiere. Tra una riccia e una frolla, tra una riccia e una frolla, Bellella si fermava a spiare Umberto e il suo cuore batteva,  batteva, batteva forte! Quanto era bello, quanto era simpatico, Umberto: era il suo amore segreto, tanto segreto che nemmeno lui era a conoscenza di questo grande sentimento di Bellella. Ogni tanto, però,  per diversi e lunghi giorni, Umberto scompariva  dal rettangolo!? I suoi amici scherzando dicevano che era partito per un lungo periodo di ferie, ospite di un nuovo e moderno hotel, a Secondigliano. Fu proprio in uno di quei tristi giorni che nel bar arrivò un nuovo barista, Michele. Era giovane, forte, con i bicipiti tatuati. Non sapeva fare nemmeno il caffè ma "doveva" lavorare: anche lui era reduce da una vacanza niente male, per tentato omicidio. Bellella sentiva continuamente il suo sguardo addosso, sentiva l'odore forte della sua pelle quando andava verso destra, verso la macchina del caffè! Un pomeriggio che don Ciro tardava a tornare, la saracinesca del bar era abbassata per le pulizie, Michele improvvisamente si spostò verso sinistra, strinse Bellella contro il bancone e abusò del suo corpo.           Quando don Ciro tornò non si accorse di niente. Bellella continuò a porgere ora una riccia, ora una frolla: sul suo dolce viso, ogni tanto, camminava una "furtiva" lacrima che lei s'affrettava ad asciugare. Dopo un po'di mesi, più o meno nove, nacque "nu' piezz' e criatur": Bellella lo chiamò Umberto.

30/04/2008
Il PASSO DEL BRADIPO
IlBradipo