LA SUA STORIA

LE ORIGINI DI UN CANTO                         

Quando l'uomo primitivo homo primigenius sentì il bisogno di esprimere gioia o dolore, certamente uscì fuori dalla sua caverna emettendo suoni gutturali e cercando, in un certo modo, di dare sfogo alle sue prime sensazioni ed al suo inesprimibile stato d'animo. Se il suo sguardo, inoltre, si fermò ad ammirare lo spuntare del sole o un ardente tramonto, anche se primigenius, non poté rimanere insensibile a tanta bellezza. Se, poi, tutto ciò era contornato da un paesaggio di vallate esuberanti di verde e lussureggianti di fiori, con animali al pascolo ed uccelli che solcavano il cielo, il suo istinto, certamente, lo costrinse a rompere quel silenzio facendogli emettere un grido di gioia e una nota ferma, intensa, piena di felicità. Quello forse, è stato il primo suono o canto che ha emesso l'uomo, cercando di comunicare con tutto ciò che lo circonda e con tutto ciò che gli appartiene.
Questa non era altro che una dimostrazione d'amore e l'amore trova, nel canto, il giusto mezzo per farsi sia sentire che capire, la giusta espressione che arriva fino al cuore di chi ci ascolta.
Così, il primo canto d'amore nacque da una leggenda che raccontava le origini di questa nostra città.
Partenope, la cui rigogliosa bellezza rassomigliava a quella di Giunone e di Minerva, era una bellissima fanciulla greca dagli occhi neri, bocca carnosa, capelli lunghi e neri, pelle vellutata su di un corpo fatto di ammirabili forme. Ella amava Cimone e ne era ricambiata con uguale intensità, ma suo padre la voleva sposa ad Eumeo da lei non amato.
Partenope, che etimologicamente in lingua greca significa “vista la vergine”, fiera di questo nome soleva sedersi sull'altissima roccia e fissare con il suo sguardo la distesa marina e perdendosi, così, nella contemplazione dell'orizzonte del mare Ionio pensava: “Oltre quel mare, lontano lontano, dove l'orizzonte si curva, altre regioni, altri paesi; l'ignoto, il mirabile, l'indefinibile!”
Assorta in questi pensieri, la fanciulla “sentiva ingrandire la potenza del suo spirito e, sollevata in piedi, le pareva di toccare il cielo col capo e di poter stringere, nel suo immenso amplesso, tutto il mondo!”
“Ella ama Cimone con l'unico, possente, imperante amore della fanciulla che si trasforma in donna”. Nei grandi occhi neri di Partenope spunta qualche lacrima quando decide, con il suo amato Cimone, di abbandonare tutto e tutti partendo per lidi lontani.
Un amore possente e insuperabile li lega l'uno all'altra per indurli a partire senza speranza di ritorno, per andare lontano lontano affidando la loro sorte ai flutti del mare sempre nemici degli amanti.
“Io ti amo!” lei sussurrò e lui, stringendola a sé: “Anch'io amore, anch'io!” sommessamente così, poi, amandosi intensamente, vanno raminghi di lido in lido cercando una degna dimora per il loro amore (M. Serao Leggende).
Un lido incantato li aspettava dalla notte dei tempi e tante tante primavere avevano regalato alle colline ubertose e alle montagne circostanti, fiori di mille colori in una natura sfolgorante e oltremodo meravigliosa. Anche il mare, eternamente innamorato, attendeva gli amanti.
Come la terra, destinata a ricambiare amore, attende il seme per ridargli la vita, così, tutta la natura aspettava coloro che portavano con sé l'amore e, nell'amore, la vita.
Le colline di Posillipo, del Vomero, di Poggioreale e di Capodimonte da tempo attendevano, ansiose di sentire i fremiti e di accogliere in un intenso abbraccio gli amanti in fuga per un amore che non muore, non può mai morire.
Finalmente, l'eros, impulso eterno, approdò sul lido divino, e colà, Partenope e Cimone vissero il loro amore e poi lo portarono sulle colline, sulle spiagge dorate, nelle caverne nascoste, nelle vallate, dappertutto. Ovunque essi si amassero anche la natura amava intensamente ed essi ne furono i primi protagonisti in una festa senza tempo, correndo nei campi in fiore e ammirando i crateri infiammati; paragonando questa esplosione incandescente, questa dirompente manifestazione della natura alla passione ardente del loro cuore.
Vediamo la bella Partenope, distesa sull'arena dorata del lido di Megaride, cantare l'amore per Cimone accarezzandogli i capelli ricci e neri e porgendogli, in un amplesso senza fine, le sue labbra turgide e sensitive.
Nei giardini incantati raccolsero i più bei fiori; ogni fiore era un bacio, baci e fiori inesauribili: questa era la passione viva dei due amanti approdati in questo lido d'amore.
Spesso, allo spuntare e al tramontar del sole sull'azzurro orizzonte del mare, spiccava il profilo greco, bellissimo, di Partenope e quello virile e vigoroso di Cimone: un abbraccio eterno li tiene legati in un eterno, invincibile amore. Era il suo trionfo in una natura lussureggiante, incantevole, e fu questa passione ardente, descritta in questa mitica leggenda che si trasformò in linfa canora inesauribile per la nostra Napoli immortale. Un canto d'amore baciò le colline, le vallate, le spiagge, i giardini in fiore: ebbe inizio, così, la storia del canto partenopeo, un'eterna armonia che, d'allora, aleggia sul nostro golfo incantato e che, nei secoli a venire, generò un perenne canto d'amore, da cui scaturì, prima, la canzone popolare, poi la canzone popolaresca e infine la vera e nobile canzone napoletana.
Le origini del canto napoletano si perdono nella notte dei tempi e, tra miti e leggende, esso ritrova le sue radici nelle dolci, appassionate espressioni canore della bella Partenope.
Partenope, quindi, è la musa ispiratrice del canto napoletano, è la stessa canzone di Napoli, felice connubio di sentimenti profondi, di forti passioni, di empiti di vita, di dolcezza e tenerezza fascinatrici, di allegrezze intrise di malinconia.

Le tre forme di espressione della canzone napoletana

Il canto d'amore di Partenope lo consideriamo nastro di partenza della Storia della Canzone Napoletana: le sue origini sono una leggenda e un mito che, nei secoli futuri, diventerà poi realtà e, in questa realtà, noi ci ritroviamo per meglio capire il ciclo storico musicale della nostra canzone. Napoli ha sempre fatto suoi e cantato: la gioia, il dolore, l'amore, le tragedie, le passioni; nel suo canto c'è la più intima essenza del mondo, in ogni suo aspetto è insito quel valore universale che tutti ci invidiano. Napoli è una città che, nei secoli, ha sempre stupito la gente per il suo peculiare canto, tanto da far scrivere al grande poeta L. Bovio in una sua canzone:

“...e i' so' napulitano
e si nun canto io moro!”

Lo studio etnofonico del popolo napoletano e del suo canto si perde in un tempo immemorabile e, tra miti e leggende, la fondazione di Neapolis si fa risalire al 1029 a.C. circa tre secoli prima di Roma. Partendo da questa premessa è giusto ritrovare nella leggenda del canto d'amore di Partenope le radici del nostro canto e della nostra canzone immortale.
Per meglio capire il significato storico musicale della canzone napoletana bisogna aver chiaro il concetto di tre espressioni, che lo storico Sebastiano di Massa considera basilare per entrare nel merito di questo tipo di canzone:

a) canzone popolare
b) canzone popolaresca
c) canzone napoletana nobile d'autore

Canzone popolare o canto popolare

Si dice canzone, o canto popolare, quella composizione che è frutto di creazione collettiva o anonima, in cui il popolo esprime il proprio sentimento e dove poesia e musica (canto o melodia) sono elementi inscindibili.
Il Rubieri afferma che “Il popolo, infatti, non canta per creare poesia, ma crea della poesia per cantare. Laonde quando essa perde la musica perde il verso”.
La canzone o canto popolare viene trasmessa esclusivamente per via orale di generazione in generazione, subendo in ogni contrada modificazioni al testo e, talvolta, anche qualche variante musicale, perché il canto popolare non è il canto popolare di Napoli città, ma quello di un popolo rurale e marinaro che vive nelle campagne, nelle marine, sulle montagne e nella valli della regione circostante.
Il canto delle sirene (come racconta Omero) o il canto d'amore della bella Partenope, hanno caratterizzato il canto popolare degli abitanti di questa terra incantata, la cui eco si perpetua, ancora oggi, nelle cadenze delle voci dei venditori ambulanti, nelle nenie marinaresche, nel ritmo frenetico delle sue tarantelle.
Del ciclo storico del canto popolare non sono rimasti documenti, ma solo un mito e una tradizione poetica e leggendaria.
Uno dei primi, sicuri momenti delle espressioni poetiche e canore del popolo lo ritroviamo, per concorde indicazione di studiosi, nel Satyricon di Petronius Arbiter (personaggio romano della corte di Nerone).
L'autore descrive il canto a distesa (oggi “canto a figliola”) di due giovani, il grido del venditore di frutti di mare, il grido delle venditrici di verdure e il declamare di imprese eroiche di un cantastorie.
Nelle tradizioni e nelle consuetudini popolari e rusticane ci sono, di ciò, ancora tante tracce e tanta eco: i canti popolari d'amore, stornelli amanti e cantilene di donne, fanno di questo canto popolare l'elemento dominante che ha sempre accompagnato, nelle umili case e nel lavoro dei campi, la fatica degli uomini.
Perciò canto popolare è tutto quanto spontaneamente nasce dal popolo, quello stesso che lo trasforma e lo tramanda, poi, oralmente ai figli dei nostri figli.

Canzone popolaresca

La canzone popolaresca è stata definita come canto di un autore destinato al popolo e ispirato dallo spirito e dal sentimento del popolo stesso, ciò è dovuto al fatto che la poesia e la musica nascono da momenti diversi, da due personalità artistiche diverse: quella del poeta e quella del musicista.
La canzone popolaresca ha delle caratteristiche precise: la non impersonalità degli autori (poeta e musicista), i quali sono ispirati dal popolo e ad esso sono rivolti e i suoi comportamenti non possono subire trasformazioni o, meglio, manomissioni di sorta da parte di altri conservando, nel tempo, quella personale impronta artistica a cui difficilmente gli autori rinunciano. Questi autori trovano materia per la loro poesia popolaresca, nei fatti reali, nelle macchiette, nel quadretto di colore, nella descrizione di tipi e costumi, nell'evocazione delle leggende e nelle tradizioni popolari; nella riproduzione, cioè, della loro vita quotidiana, pittoresca, a volte comica, a volte tragica e comunque varia e propria dello stesso popolo tra cui questi autori vivono.
A questo risultato possono arrivare anche i poeti non colti con i musicisti melodisti, cioè non trascrittori, non conoscitori della musica, purché il tutto sia ispirato dalla semplicità istintiva e piena di freschezza del loro animo che li fa considerare genuini rappresentanti del popolo, del quale hanno saputo esprimere validamente lo spirito e il sentimento.
La città di Napoli, in se stessa, è povera di canti popolari e, come tale, incapace di alimentare i suoi canti popolareschi. La Campania e le regioni limitrofe sono state il serbatoio del canto popolare e tutte quante loro hanno contribuito, con l'apporto della loro ricchezza, cioè del patrimonio canoro di tutti i popoli circostanti, ad alimentare la fonte dove ancora oggi sgorga, zampillante, la vena poetica e musicale della canzone popolaresca.

Canzone napoletana nobile d'autore

La canzone napoletana d'autore è canzone nobile per eccellenza e per intensità di ispirazione e, come scrive Luca Torre nella sua presentazione al libro delle Poesie e Canzoni di S. Di Giacomo, detto tipo di canzone “trasferisce, in versi, rarefatte atmosfere crepuscolari vedutistiche vibrazioni-visioni della città-mondo in cui vive ed opera il suo autore”.
La canzone napoletana nobile d'autore è quella canzone composta d'una poesia lirica soggettiva, non scritta per il popolo, ma rispecchiante ed esprimente stati d'animo del poeta. Il musicista è agevolato nel suo compito perché, in questo caso, la poesia è già musica, è già cantabile, quindi due personalità diverse, due stati d'animo che poi concorrono alla realizzazione di una vera canzone nobile d'autore.
Quando la canzone d'autore viene, così, elevata a dignità d'arte e il pubblico l'accetta, facendola sua, il successo e la sua immortalità sono assicurati, come confermano alcune canzoni di S. Di Giacomo e di altri poeti musicisti.
La vera canzone d'autore, primario patrimonio artistico culturale della nostra città, nasce, come squisita e completa forma d'arte, nell'ultimo ventennio dell'Ottocento e, se si eleva a dignità d'arte e a valore universale, lo deve unicamente e solamente all'interesse che ad essa hanno attribuito i veri poeti e i veri musicisti. Queste sono canzoni ancora vive, di successo e applaudite in tutto il mondo, egregiamente interpretate da Caruso, da Pasquariello, da Sergio Bruni, da Aurelio Fierro, da Roberto Murolo, da Pavarotti e da tanti altri che, in queste canzoni, hanno esaltato l'animo nobile della città di Napoli, degna figlia della sirena Partenope.
Napoli, come la leggenda di Partenope, è un eterno canto d'amore: è immortale.

Le radici storiche della canzone napoletana

Chiarito il concetto di canzone popolare, canzone popolaresca e canzone napoletana nobile d'autore, possiamo senz'altro passare alla parte storica del suo ciclo musicale.
Io non sono d'accordo con quegli autori che scelgono una data nella storia patria napoletana, per affermare che in quell'anno è nata la canzone napoletana: è un modo sbrigativo per non affrontare il vero problema, cioè lo studio di tutti quei cicli storici che hanno preparato l'avvento e lo sviluppo della vera canzone napoletana, cioè quella nobile d'autore che tanto lustro ha dato a questa nostra città.
Lo stesso Max Vajro scrive che il problema delle origini della canzone napoletana è ancora da risolvere, mentre Sebastiano di Massa riconferma che questa origine è da ricercare nel canto popolare, così come ogni inizio dei periodi o cicli della vita di essa nasce costantemente da una rigenerazione operata sul canto popolaresco giunto ormai a decadimento, oppure nasce dal canto popolare, che si conserva puro e incontaminato, pur trasformandosi, costantemente, secondo l'evoluzione dello spirito popolare, nelle diverse epoche.
Tutto ciò conferma la mia tesi che le radici della canzone napoletana sono ben radicate nella leggenda del canto d'amore della bella Partenope che, nel tempo, ha dato vita al canto popolare e da questo, poi, trae origine il canto popolaresco e, dall'insieme di tutte queste evoluzioni, è scaturita la vera canzone napoletana d'autore universalizzata nella sua immortalità che, come leggenda, va sicura verso i secoli affluenti. Questi secoli hanno visto l'approdo, nel golfo incantato, della bella Partenope col suo Cimone, ascoltati i suoi canti d'amore appassionati e nostalgici, vissuto la fondazione della città di Partenope (anno 1029 a.C.), di Palepolis (secolo VII a.C.) e di Neapolis (secolo V a.C.); ammirato la Napoli greco-romana con i suoi teatri, palestre e ginnasi, la Napoli di Virgilio con i suoi canti e di Stazio, la Napoli di Augusto con la grotta di Priapo nella collina di Posillipo dove echeggiavano i canti fescennini, etruschi e latini; la Napoli dell'imperatore Giustiniano che difende gelosamente la civiltà romana contro i barbari e ai quali sarà faro di cultura e di civiltà, mostrandosi erede legittima dell'antico Impero Romano.
La Roma imperiale occupa la Grecia e il mondo culturale greco offre come merce di scambio anche la musica di cui si fa oggetto di studio al pari di arte e scienza. All'orizzonte spunta il Cristianesimo con i suoi canti religiosi; Nerone al teatro Odeon di Neapolis canta applaudito dai napoletani. In quel periodo Petronius Arbiter scriveva il Satyricon a Cuma informandoci, dopo tanti secoli, che già allora la Neapolis aveva e cantava i suoi canti popolari: la caduta dell'Impero romano e il Medioevo portano secoli di silenzio e di barbarie, il Cristianesimo trionfa con i suoi canti gregoriani e, nelle contrade, arriva il Cantico delle creature di S. Francesco d'Assisi, mentre il popolo ritrova se stesso con i suoi canti popolari. Arrivano i giullari, il sirventese, mentre il popolo canta lo strambotto, la canzonetta, la frottola, la ballata e il madrigale.

La canzone napoletana dal 1300 a 1500

Alfonso V D'Aragona conquista la città di Napoli e impone come lingua ufficiale del regno, il dialetto napoletano (1443); nascono i primi poeti e la prima letteratura napoletana.
Già nel 1200 circa, sulle colline del Vomero, le belle ragazze invocavano il sole affinché uscisse presto per asciugare le lenzuola stese al vento:

“Jesce sole, jesce sole,
non te fa cchiù suspirà.
Siente maje che le ffigliole
hanno tanto da prià”.

In questo canto si rinnova nei secoli il canto d'amore della vergine Partenope, unica fonte che la leggenda ha portato fino a noi, unico momento certo in cui è iniziato sul carro lucente del dio Sole e sull'onda iridiscente delle correnti marine, il melodico viaggio della canzone napoletana.
Molti storiografi pongono questo canto alle origini del dialetto e della canzone napoletana, trascurando tutte le considerazioni che nascono quando si analizzano nel loro insieme le cause di certi processi storici e musicali insieme.
Erano gli anni in cui Federico II di Svevia proibiva di cantare di notte per le strade, proprio quando a Napoli erano in voga La canzone pé spasso de ‘sto carnevale e, fra queste, Lo Recottaro, Lo ‘Nfornataro, Lo Polliero, Lo Ciardiniero, Lo Pisciavinnolo, ecc.
S. Francesco d`Assisi girava il mondo conosciuto d'allora con il suo bel Cantico delle creature, mentre nelle corti erano di moda i giullari e i cantori del sirventese giunto dalla Francia. Nel secolo XV regna a Napoli Alfonso V D'Aragona, detto “il Magnanimo”, I° Re di Napoli. Alla sua corte i poeti aulici sentivano già il bisogno di innovare le forme della poesia, ispirandosi alla fonte del sentimento spontaneo e popolare.

Fioriscono:

lo strambotto : “A dò sò ghiute tant'abbracciamiente?
Tante carizze ca me stive a fare?”
ecc., ecc.

il rispetto: “Pensando ad ognie mio grave peccato,
cossì come me trovo ad una grotta,
agio sentuto che tu sì' arrivato”,
ecc., ecc.

il rispetto: “Nun me chiammate cchiù Donna Isabella,
chiammateme Sabella sventurata”,
ecc. ecc.

il distico: “Muorto è lu purpo e sta sotto la preta,
muorto è Ser Gianni figlio de poeta” ecc., ecc.

I poeti e i musici di Corte diedero vita, con i loro strambotti, al primo canto popolaresco napoletano, ma il popolo non accettava le forme gravi, pesanti e artificiose di questi poeti e spesso si rifugiava nei suoi freschi canti popolari:

“Chiena de nfamità, faoza nascisti,
chiena de nfamità ti generasti”, ecc., ecc.

come pure questo vivo canto proveniente dalle campagne:

“L'acqua m'assuga e lo sole me nfonne,
tutte le ccose meie contrarie vanno”, ecc., ecc.

È il secolo in cui il genio italiano domina la scena di tutte le corti con i suoi grandi maestri: da Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Correggio, Giorgione, Tiziano, fino al Veronese e al Tintoretto; è il secolo della scoperta dell'America con Cristoforo Colombo, mentre a Napoli, nelle strade, si canta la villanella, un canto popolare proveniente dalle campagne.
Il ‘400 è il secolo delle prime trasformazioni nel campo musicale; difatti, alla Corte Aragonese di re Alfonso, si sente l'influenza della scuola musicale fiamminga più colta e polifonica. Con il suo canto popolare, Napoli porta in tutta l'Europa le villanelle napoletane e, con questo successo, il dialetto napoletano entra anche a corte per divertire nobili e plebei.
Il ‘500 riceve in eredità il successo strepitoso delle villanelle napoletane e, ogni giorno, Piazza Castello diventa il centro musicale di questa città, come la taverna del Cerriglio e lo scoglio di S. Leonardo al borgo di Chiaia dove poeti e musicisti si riunivano per comporre nuove villanelle che il popolo faceva sue e cantava per le strade e nelle feste popolari.
È il secolo del primo grande poeta in lingua napoletana, alias Passaro Bernaldino detto Velardiniello (1400-1500), a cui va attribuito la dolce villanella:

”Voccuccia de no pierzeco apreturo,
Mussillo da na fico lattarola,
S'io t'aggio sola dinto de quist'uorto”,
ecc., ecc.

mentre altri poeti rapsòdi, spesso cantori oltre che abili musicisti, partecipavano a feste e balli popolari ed erano ricercati ed applauditi dappertutto. Essi sono: Giovanni della Carriola, Junno Cecale (detto anche Compà' Junno), Jacoviello, lo poeta Cola, Ciardullo (detto: lo poeta Vozza), Mucho, Mase, ecc. Fra i tanti, poi, Velardiniello, ci ricorda il bravo poeta cantore detto Sbruffapappa, di cui ci resta la famosa villanella:

“O Dio! che fosse ciàola e che bolasse
a ssa fenestra a dirte na parola;
ma non che me mettisse a na gajola.”
ecc., ecc.

Un altro poeta e musico, chiamato Gian Leonardo Dell'Arpa il popolo lo acclamava nel largo del Castello e di lui ci resta:

”Si havessi tantillo de speranza
la pena mia non saria tanto dura”,
ecc., ecc.

A questi poeti e musicisti si affiancavano le villanelle di successo, come:

a) Tu sai che la cornacchia ha questa usanza,
    che quando canta dice sempre crai:
    crai - crai - crai - crai
    ecc., ecc.

b) Parzonarella mia, parzonarella,
    ecc., ecc.

c) Vorria addeventare prevolillo
    pe fa ste coscetelle caude stare,
    ecc., ecc.

d) Fatte li fatti tuoi, madonna Perna,
    che non haggio a fare cchiù co' tico,
    ecc., ecc.

e) Li Saracini adorano lo sole,
    e li Turchi la luna con le stelle
    ed io adoro queste trezze belle.

f) Oh, saporita chiù de la insalata,
    oh teneriella chiù de la latuca,
    ecc., ecc.

Tutte le villanelle di successo vengono stampate su fogli volanti con i testi e la musica e questo conferma l'affermarsi delle villanelle alla napoletana anche fuori della città di Napoli.

La canzone napoletana nel XVII e XVIII secolo

Arriva il ‘600 stracarico di cultura musicale, portando con sé il declino della villanella e l'evolversi e il trasformarsi del madrigale e, da questi, l'avvento del melodramma. Molti valenti musicisti hanno poi contribuito a questo processo evolutivo, tra cui, il musico Carlo Gesualdo Principe di Venosa (1560-1616); Claudio Monteverdi (1567-1643), Alessandro Stradella (1645-1682), Pier Francesco Cavalli (1602-1676), Giacomo Carissimi (1605-1674), Alessandro Scarlatti (1662-1725); essi con il loro talento musicale, con la loro genialità hanno dato una svolta decisiva ed hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo del melodramma nel secolo XVII lasciando, con la loro arte e creatività, un segno indelebile.
La scuola operistica napoletana, invece, trova in Francesco Provenzale (1627-1704), compositore di musica sacra religiosa e teatrale, il suo iniziatore che dà origine, nella nostra città con grande ritardo rispetto alle altre, alla produzione melodrammatica partenopea.
Nel ‘600 le villanelle concludono il loro ciclo evolutivo nascendo prima anonime e popolari nei “villici” borghi di campagna, poi popolaresche in città e, infine, villanelle auliche d'autore alla “toscanese” nelle Corti dei vari regni, per decadere, definitivamente, venendo meno la spontaneità e la semplicità di quando erano anonime e popolari.
Il ‘600 dona alla nostra città i tre primi grandi poeti e scrittori: Filippo Sgruttendio da Scafati (?), Giulio Cesare Cortese (1575-1621) e Giambattista Basile (1575-1632). Nelle opere di questi tre grandi poeti del ‘600 si sente lo slancio puro e ardito del popolo che partecipa, con questa sua lingua corposa e “tosta”, a tutta la cultura del tempo, descrivendone la vita, i costumi e offrendoci, così, una viva, diretta, fresca testimonianza di essa. Nonostante la rivoluzione di Masaniello nel 1647, la peste del 1656 e il terremoto del 1688, il popolo, anche in queste tragedie, continuava a cantare per levarsi di malinconia.
La nascita della poesia e della letteratura dialettale favorì l'avvicinarsi dei poeti al popolo e il trarre, dalla vita di esso, ispirazione per i loro canti. Questo interesse secondò lo sviluppo del canto popolaresco napoletano il quale, infatti, ristabilì il contatto dell'arte aulica, cioè colta, con il canto popolare. Le opere del Cortese, le dialogate Egloghe del Basile e la ‘Ntrezzata dello Sgruttendio prepararono la nascita della Commedia Dialettale e dell'Opera Buffa (1700).
È anche il secolo di Michelemma' e di Fenesta ca lucive: ognuno cerca di dare una paternità a questi due successi, ma sono d'accordo con lo storico Sebastiano Di Massa che, le citate opere, non sono “canzoni popolaresche” bensì dei puri “canti popolari”.
Le condizioni sociali e morali del popolo napoletano alla fine del ‘600 sono disastrose, dopo varie dominazioni straniere la città era caduta nel disordine e nella miseria più nera. Solo dopo il trattato di Acquisgrana (1668) si assicurerà all'Italia di allora, un cinquantennio di progresso e di pace ma subendo, poi, il dominio austriaco. La Napoli di fine ‘600 e inizio `700 riversa nelle strade la voglia eterna di cantare ballando sfrenatamente le tarantelle, un ballo di moda e, allora, di grande successo.
Il nascere del melodramma fa di questo ‘700, il secolo del teatro e non della canzone: vengono costruiti il teatro Fiorentini (1707), il teatro di San Carlo (1737), il teatro Mercadante, detto originariamente teatro del Fondo (1780), il teatro Nuovo (1790) e il teatro S. Ferdinando (1790). Il diffondersi del melodramma porta spesso all'esagerazione degli apparati scenici e alle complessità musicali di esso, perciò si sente la necessità di alleggerire la solennità di questi apparati introducendo, tra un atto e l'altro, un intermezzo con spacchi musicali e scene di vita popolare vissuta tutti i giorni nelle strade della città di Napoli. Da questo spunto nascono la Commedia Dialettale e l'Opera Buffa quasi contemporaneamente. Al successo dell'Opera Buffa partecipano, oltre il Veneziano, il De Falco, l'Orefice e il De Dominicis, anche i maestri più colti quali Leo, Vinci, Scarlatti, nonché Paisiello, Pergolesi e Cimarosa. Il ritorno di questi artisti alla fonte dello spirito popolare, ridà vita alla canzone popolaresca napoletana, e si abbandona il melodramma aulico, nato nella Camerata della Casa Bardi ad opera di eruditi artisti. Questi grandi artisti non disdegnano di prendere, dalla bocca del popolo, i più noti canti popolari, per poi elaborarli e inserirli nelle Opere Buffe. Di questi ricordiamo:

- Palummella zompa e vola
- Lu Cardillo
- Cicerenella

nonché due graziose e simpatiche tarantelle, forse villanelle del ‘500 grande successo:

- Lo Guarracino (canto popolare anonimo)
- La Rosa (Mercadante).

Il secolo dell'Opera Buffa si chiude con l'epopea della Repubblica Partenopea (1799), durata sei mesi e finita tragicamente sui patiboli, mentre il ritorno dei Borbone trascina questa incertezza del potere fino all'arrivo di Garibaldi. Il popolo, nella riconquistata libertà, torna a cantare e a riproporre i successi dell'opera buffa, quei successi che preparano l'avvento della canzone napoletana nobile d'autore con il grande Di Giacomo.

La canzone napoletana nel XIX secolo

L'800 arriva lordo di sangue, con i patiboli ancora operanti sulle piazze dove venne decapitata e uccisa tutta la cultura napoletana dell'aristocrazia e della media borghesia intellettuale che voleva restituire e istituire a Napoli la libertà e la democrazia. I guai non sono finiti per questa città invasa sempre da nuovi padroni: l'arrivo di Giuseppe Bonaparte (1814) vede in esilio in Sicilia Ferdinando IV e, sul trono di re, Gioacchino Murat, che l'8 settembre partecipa alla festa di Piedigrotta con una grande parata e con tutta la famiglia reale: il popolo riprende coraggio e torna a cantare per le strade la canzona nova. Si rinnovava il rito dell'osteria a S. Eframo Vecchio dove si ritrovavano poeti e musicisti che, tra un bicchiere e l'altro, davano vita alla canzona nova, fatta da tutti e da nessuno, ma cantata, poi, da tutti alla festa di Piedigrotta.
Il ritorno dei Borbone a Napoli e la fucilazione di Gioacchino Murat illudono il popolo napoletano di una ritrovata pace e in una sera della Piedigrotta del 1835 scoppiò per incanto il successo di Raffaele Sacco nella famosa canzone: Te voglio bene assaje, musicata da Donizetti. Napoli la canta di giorno, di notte e in ogni dove, è un'ossessione e quindi un grande successo: vengono vendute oltre 180 mila copielle con i versi e la musica di questa canzone. Il popolo cantava ancora nell'illusione di una ritrovata pace e di un pizzico di libertà, ma già nell'aria c'era odore di rivolta e il ‘48 era ormai alle porte: l'invasione di Garibaldi nel Regno delle Due Sicilie con Napoli Capitale segnala fine di un'epoca e la nascita del Regno d'Italia. Negli anni mediani del primo ‘800, a parte il vivo consenso ottenuto da T e voglio bene assaje, nessun poeta o musicista riuscì a dare vita a qualche altro successo di canzone popolaresca napoletana; solo Teodoro Cottrau (1827-1879) riuscì, in un certo modo, ad esprimere un gusto personale nelle due canzoni: Santa Lucia e La Sorrentina (28-10-1850).
Questo autore era figlio di Guglielmo Cottrau (francese), arrivato a Napoli durante il regno di Gioacchino Murat, cultore dei canti del popolo partenopeo, tanto da stamparne una raccolta dal titolo: Passatempi musicali presso la tipografia Girard nell'anno 1820.
Nel 1824 fu stampata un'altra raccolta di canzoni, edita dallo stesso Cottrau padre, curata dal Florimo dal titolo: Napolitane.
Nel 1882 il M.° Vincenzo De Meglio le raccolse in tre volumi, comprese quelle di Cottrau, in cui riporta tutti i canti popolari anonimi e poi quelli degli autori del primo Ottocento, 150 canzoni popolari dal titolo Eco di Napoli riproposte da Luca Torre.
Nello stesso periodo, Luigi Molinaro del Chiaro manda alla stampa il volume dal titolo: Canti popolari raccolti in Napoli.
Altra raccolta importante per il suo contenuto è quella di Max Vajro dal titolo: Canzonette napolitane del primo Ottocento edita da Pironti nel 1954, quale alto valore documentario.
Le canzoni pubblicate dal 1840 in poi mettono in evidenza i costumi e gli eventi che hanno interessato la città di Napoli: il poeta Peppino Turco e il musicista Luigi Denza, con due motivi di successo, ricordano l'invenzione del telefono con ‘O telefono e l'inaugurazione della funicolare vesuviana con Funiculì Funiculà nell'anno 1881.
Il nostro Risorgimento è l'inizio di un'era nuova anche per la canzone napoletana, è l'inizio di un nuovo ciclo, il più ricco e complesso di tutta la sua vita. Questo secolo racchiude in sé la somma di tutti i cicli in cui la città ha vissuto e sviluppato il suo talento canoro e musicale e le cui radici sono da ricercarsi nella leggenda della bella Partenope, nel canto anonimo e popolare dei suoi interpreti, nella canzone popolaresca dei suoi poeti e musicisti fino a ritrovare, a cavallo di tale secolo, l'anima di un grande poeta, che ha saputo convogliare ed amalgamare, con l'eccezionale sensibilità, gli elementi tradizionali del canto e lo spirito del popolo del suo tempo e dare alla canzone napoletana che si innesterà al troncone delle arie e delle ariette dell'opera lirica, grazie all'apporto di compositori come F. P. Tosti, M. Costa ecc., la vera nobile forma d'arte. Questo grande poeta è Salvatore Di Giacomo che nel 1882 inizia la sua produzione con la canzone popolaresca: Nannì, nel 1883 con musica di Mario Costa esce: Sì ‘a capa femmina, nel 1884 con: Nun ce jammo, Nannì. Nello stesso anno scoppia a Napoli di nuovo il colera provocando ventimila morti: si decide il risanamento della città e nel maggio del 1885 Umberto I inaugura l'acquedotto del Serino.
Napoli è un continuo cantiere e il popolo cerca in tutti i modo di uscire da quella crisi e riesce persino a cantare un altro successo di S. Di Giacomo: Oilì, Oilà. I concorsi di canzoni si susseguono e ogni Piedigrotta ripropone la sua canzona nuova. Di Giacomo è il poeta più richiesto e più cantato: arriva Marechiaro, ‘E spingole francese, Palomma e notte, Donna Amalia ‘a Speranzella, ‘A nuvena, Carcioffolà, Carulì, A retirata, All'erta sentinella, Lariulà, A luna nova.
Queste canzoni sono considerate dallo stesso Di Giacomo a carattere popolaresco, mentre le prime canzone nove, cioè la vera canzone d'arte: Matina matì, Serenata napulitana, Pianefforte ‘e notte, Marzo, E trezze ‘e Carulina, ‘A sirena, Era de maggio, Ll'ore ‘e ll'appuntamento.
Di Giacomo è stato il primo grande poeta che ha saputo dare alla canzone napoletana quella dignità d'arte, ove il canto è puramente lirico, cioè poesia d'amore: questa domina, sovrana, il ciclo nobile ottocentesco della canzone napoletana.
Coetano di Di Giacomo è Ferdinando Russo; anche lui fa della canzone napoletana una lirica soggettiva e riesce a portare le “macchiette” all'altezza di vera creazione d'arte. È un poeta impetuoso, sensibile e gentile, come la gente della sua città, di cui è parte integrante il poeta di Tammurriata palazzola, Scetate, Mamma mia c'ha da sapé, Quanno tramonta ‘o sole.
Arriva prepotente e scanzonato il commediografo Roberto Bracco, contemporaneo del Di Giacomo, con le sue canzoni scritte quasi per diletto, nelle serate canore di Piedigrotta: Come te voglio amà, Abbastà ca po', Africanella, Nu passariello spierzo, Tarantella ‘ntussecosa, Salamelic. In questo periodo di grande successo della canzone napoletana anche il grande poeta Gabriele D'Annunzio volle dare il suo contributo poetico al nostro patrimonio artistico culturale con il suo delizioso sonetto: ‘A vucchella scritta per scommessa una sera su un tavolo di marmo del Caffè Gambrinus e poi musicata da F. P. Tosti. Correva l'anno 1892.

La canzone napoletana agli inizi del ‘900

I primi veri tre grandi poeti della nobile canzone napoletana ebbero i natali a Napoli, mentre l'aggiunto per scommessa, era nativo di Pescara: Salvatore Di Giacomo (12-3-1860/3-4-1934), Ferdinando Russo (23-11-1866 / 30-1-1927), Roberto Bracco (19-9-1858/30-4-1943), Gabriele D'Annunzio (Pescara 12-3-1858 / 1-3-1938). A questo gruppo di grandi si aggiunsero poi altri interpreti dell'animo del popolo detti canzonieri, perché erano poeti d'istinto, non letterati e quindi lontani da qualsiasi influenza culturale.
A questo gruppo, su per giù coetanei del Di Giacomo, appartengono questi canzonieri, questi poeti del popolo che ci hanno lasciato alcune tra le più belle canzoni napoletane:

- Giovanni Capurro (5-2-1859 / 18-1-1920) - Poeta dell'immortale canzone: ‘O sole mio, pieno di umorismo, attento osservatore, con i suoi versi velati di malinconia, descrittore dei tipi napoletani, bravo anche nelle macchiette. Altri suoi successi più conosciuti sono: ‘O pizzaiuolo nuovo, Quanno mammeta non ce stà, A sciantosa, Lilì Kangì, Perì pperò, Totonno ‘e Quagliarella, Fili d'oro.

- Pasquale Cinquegrana (21-4-1850/27-4-1935) - Poeta molto amato dal popolo, semplice ed onesto come ha sempre vissuto da bravo maestro elementare. I suoi successi più significativi sono: ‘ E bersagliere, Furturella, Ndringhete ndrà, Muntevergine, A cura ‘e mamma. Scrisse anche macchiette di successo, come: ‘O rusecatore, Don Saverio, `O mbricato, ‘O sbruffone, ‘O bizzuoco fauzo.

- Giambattista De Curtis (20-7-1860 / 18-1-1926) - Poeta pittore e musicista, nelle sue canzoni sempre la voce della sua Sorrento. I successi più noti: Torna a Surriento, Carmela, Ninuccia, ‘A picciotta, A surrentina, I' m'arricordo ‘e te , ecc.

- Vincenzo Russo (16-3-1876 / 11-6-1904) - Un sincero e spontaneo poeta della canzone; poco istruito, ma sensibile e lirico come non mai, morì giovanissimo e il destino rubò a questa città uno dei suoi più sensibili poeti, un vero figlio che poteva cantar in versi ancora tutto il sentimento della sua gente. I suoi successi immortali: Maria Marì, Io te vurria vasà, A serenata d'e rrose, Torna maggio, Canzona bella, L'urdema canzona mia.

- Aniello Califano (19-1-1870 / 20-2-1919) - Canzoniere e poeta prolisso, studente in ingegneria, anche lui cantava con amore la sua Sorrento. I successi sono: ‘A surrentina, Serenata a Surriento, Ninì Tirabusciò, ‘O mare e' Margellina, Mandulinata a mare, Tiempe e belle, ‘O surdato nnammurato, ecc.

- Gennaro Ottaviano (25-7-1874 / 25-8-1919) - Un garzone di vinaio, ma offriva vino genuino profumato di poesie e canzoni. Il suo grande successo mondiale: ‘O marenariello, ecc.

- Giuseppe Capaldo (21-4-1874 / 25-8-1919) - Spontaneo e genuino cantore dell'anima napoletana, morì giovane lasciando tanti successi: Comme facette mammeta, L'arte d”o sole, A tazza ‘e cafè, E llampadine, ecc.

- Dopo il 1799 fra la plebe e la media e colta borghesia si era creato un baratro insanabile, che nemmeno il nuovo assetto politico, economico e sociale dell'unità d'Italia riuscì a sanare. Questo miracolo fu operato solo dalla canzone napoletana che portò il dialetto della plebe nei saloni dell'alta e colta borghesia facilitandone, così, il dialogo interrotto dopo che la plebe aveva ferocemente decapitata la cultura partenopea sui patiboli della città con la fine della Repubblica Partenopea.

Napoli aveva ritrovato la sua armonia interiore ed esteriore solo attraverso le sue più belle canzoni e la manifestava nella festa di Piedigrotta dove il popolo si ritrovava unito, nella felicità e nel canto. In questo clima di ritrovata fiducia Napoli preparava il terreno per la rinascita della canzone popolaresca napoletana, ma soprattutto per l'arrivo tanto atteso e sperato della canzone napoletana nobile d'autore.
Nascono i primi editori musicali: Bideri, Ricordi, Santojanni, Pierro, Ceccoli, ecc. e all'ombra del grande poeta Salvatore Di Giacomo nascono una miriade di poeti e melodisti che compongono a gara nuovi canti per cercare di esprimere, poi, con le loro canzoni, il sentimento di questa città.
Valenti musicisti diedero una mano ai grandi poeti per la nascita della canzone napoletana d'autore: un primo gruppo era composto da grandi e bravi musicisti come P. Mario Costa, F. Paolo Tosti, Enrico De Leva, Luigi Denza, Vincenzo Valente, Ernesto De Curtis.
Il secondo gruppo di coetanei di S. Di Giacomo e appellati “canzonieri” avevano, invece, maestri come: Eduardo Di Capua, Salvatore Gambardella, Vincenzo Di Chiara, Giambattista De Curtis, Giuseppe Capolongo, senza tener conto di tanti altri minori.
Il periodo più importante della Canzone Napoletana va dai 1880 al 1910 ed ha come protagonisti poeti e musicisti innanzi ricordati; ma nuovi autori, nel rispetto dei grandi, si cimentarono ad aprire nuove strade e detta autentica melodia partenopea.

Il Cafè Chantant

Altri eventi diedero impulso a questa ondata di creatività poetica: si inaugura, il 9 novembre 1890, la Galleria Umberto I e, con essa, il Salone Teatro Margherita, collocato nella “crociera inferiore” della stessa Galleria.
Nacque così il Cafè Chantant che, primo del genere in Italia, segnò lo sviluppo e l'affermarsi del varietà napoletano e italiano.
Napoli, non più capitale di un regno da trent'anni, vive questo evento come momento esaltante e magico; per tale intenso vissuto riesce a riproporre una sua inedita immagine a livello nazionale e internazionale.
Il Salone Margherita propone con successo il Cafè Chantant con artisti internazionali e balletti del Moulin Rouge di Parigi.
Dominano la macchietta con Nicola Maldacea, la melodia con Gennaro Pasquariello, le canzoni eccentriche e stravaganti con le famose “Chantose”, le estemporanee esibizioni poetiche di Armando Gill, il Can-Can sfrenato e sensuale, la bellezza e il canto di Lina Cavalieri, la bella Otero e la grande Fougère: questo il periodo del massimo splendore dell'incantevole Salone Margherita (1890-1910). Con la diffusione del Cinema, il Cafè Chantant e per esso il Salone Margherita iniziano, purtroppo, la fase discendente e questo tempio del varietà viene utilizzato per proiezioni cinematografiche con avanspettacolo o sceneggiata. Oggi, caduto in mano privata, è chiuso per uno strano e lungo restauro. Chissà a quando la riapertura. Per conto di chi? Per cosa? Il potere degli enti locali è latitante e non sente il dovere di imporre il rispetto del restauro per la restituzione di questo spazio storico teatrale alla città di Napoli.
Si affaccia alla ribalta della canzone napoletana una nutrita e valida seconda generazione di poeti e fra questi emergono:

- Rocco Galdieri (Rambaldo) (11-10-1877 / 16-2-1923) -Il vero poeta della nuova generazione. Porta una ventata nuova nella lirica napoletana, i suoi versi velati di malinconia fanno parte della sua personalità inconfondibile, è il vero poeta che scrive quello che sente, i moti del suo animo, una lirica soggettiva che viene giustamente paragonata a quella del Di Giacomo. I suoi successi: Sora mia, Vomero, ‘Na vota sola, ‘O core ‘e Catarina, ‘A canzone d'o pazzariello, E bonasera ammore, Rundinella.

- Ernesto Murolo (4-4-1876 / 30-10-1939) - La sua anima di poeta è una tavolozza piena di colori, con la quale traccia, con leggero tocco, quadretti di vita napoletana, è il poeta pittore di una Napoli che non c'è più. I suoi successi sono tanti e troppi e noi ricordiamo solo i più noti: Tammurriata all'antica, Pusilleco addiruso, Suspiranno, Te sì scurdato e Napule, Tarantelluccia, Ah, l'ammore che ffa fà, Popolo po', Napule ca se ne va, ‘O cunto ‘e Maria Rosa, Piscatore ‘e Pusilleco.

- Libero Bovio (8-6-1883 / 26-5-1942) - Il Pascoli della canzone napoletana, i suoi versi cantabili son già musica, il suo amore per Napoli già poesia, i suoi personaggi sono di una Napoli palpitante di umanità, una piccola borghesia che vive la sua vita di sempre tra vichi e piazzette dei quartieri più popolari della città; è il poeta che le pone radici dell'animo canoro del popolo napoletano nel canto d'amore della bella Partenope ed è chiaro il richiamo dei suoi versi quando dice:

“...e i' so' napulitano
e si nun canto moro”.

I suoi successi sono tutti egregiamente musicati da bravi e valenti maestri: Canta pé me, Surdate, Autunno, Nun voglio fa' niente, Tarantella luciana, Guapparia, Napule canta, Reginella, Brinneso Ncopp'a ll'onna, ‘O mare canta, Silenzio cantatore, Chiove, L'addio, Totonno se ne va, E ppentite, Lacrime napulitanne, ‘O paese d'‘o sole, Tarantella scugnizza, Zappatore, ‘E figlie, Mammà addo' stà?, Carcere, Passione, Quanta rose, Busciada, Me vuò bene, L'urdema tarantella, Chitarra nera, Amor di pastorello, ‘O meglio amico, Cara piccina, Pallida mimosa, Signorinella.

- Edoardo Nicoardi (C. O. Lardini) (28-2-1878 / 26-2-1954) - Poeta versatile, la sua poesia avvince e commuove perché intrisa d'amore, di passione, di gelosia, di tormento, di rassegnata ironia. I successi sono: Voce ‘e notte, Sciuldezza bella, ‘Mmiez' o grano, Tammurriata nera, ‘E zucculille.

- E. A. Mario (5-5-1884 / 26-6-1961) - Un poeta poliedrico che riesce a conquistare un posto a sé nel mondo della canzone e della poesia napoletana. Un linguaggio nuovo, fresco, genuino che traspare nelle sue più belle canzoni. É il poeta del Piave. I suoi grandi successi: Funtana allombra, Canzona napulitana, I' ‘na chitarra e ‘a luna, Maggio si' tu, Comme se canta a Napule, Santa Lucia luntana, Core furastiero, Duje paravie, Mierolo affurtunato, ‘O festino, Canzona appassiunata, Ammore ‘e femmena, Presentimento, Vipera, Ladra, La leggenda del Piave, Le rose rosse, Nostalgia di mandolini, Balocchi e profumi, ecc.

- Luca Postiglione (18-10-1876 / 27-8-1936) - Poeta e pittore, le poesie rispecchiavano i colori della sua anima, era istintivo, raffinato, sincero. Si ricordano: Canzuncella d'ottobre, Bella che saje guardà, Carmela.

- Alfonso Mangione (6-4-1891 / 5-12-1937) - Personaggio singolare e anche bizarro, poeta per distrazione, ma con una eleganza tale da non cadere mai nella volgarità. Si ricordano di lui: 'A casciaforte, ‘A rezza, nun c'è sabato senza sole.

- Armando Gill (Michele Testa) (28-7-1877 / 2-1-1945) - Uno, forse, dei più importanti cantautori napoletani, piaceva per il suo repertorio che egli stesso annunciava con il dire: “versi di Armando, musica di Gill, canta Armando Gill”. Poeta popolare, signorile, uomo di cultura, una spiccata personalità artistica. I suoi successi: Come pioveva, ‘O quatto ‘e maggio, ‘O zampugnaro nnamurato, Nun so' geluso, Bella ca bella sì, Palomma, Gina mia, Canti nuovi, Stornello dell'aviatore, ‘E allora?.

- Raffaele Chiurazzi (24-2-1876 / 3-12-1957) - Scultore e poeta. Le sue poesie esaltano l'amore, gli uomini, i capricci, la gelosia dei suoi quartieri scritte in un napoletano purissimo. Si ricordano di lui: Duorme, Madunnella, Zì monacella mia, Ammore ‘ncarruzzella, Tre nnammurate, Canzona piccerella, ecc.

I poeti della II generazione

Tutti i poeti della seconda generazione ebbero a disposizione musicisti dotati di temperamento e spontaneità che seppero tradurre quelle poesie in facili melodie tanto da portarle subito al successo.
Fra questi ricordiamo: Ferdinando Albano, Francesco Buongiovanni, Enrico Cannio, Ernesto De Curtis, Edoardo Di Capua, Rodolfo Falvo, Gaetano Lama, Evemero Nardella, Attilio Staffelli, Ernesto Tagliferri, Nicola Valente ecc.
I tempi, purtroppo, cambiano e risentono dei travolgimenti politici e sociali, di conseguenza anche la canzone rispecchia il mutamento e registra, pertanto, la fine del periodo conclusivo del ciclo ottocentesco della canzone napoletana la "bella epoque" di un magico momento storico della nostra canzone fatta di stile di sentimento. In questo clima pesante nasce lo spunto e si manifesta la rabbia di un verseggiatore popolare Antonio Barbieri, quando lancia un grido disperato come lo lanciò a suo tempo G. B. Basile nello scrivere:

"... dov'è juto lo nomme
vuosto, dove la famma,
o villanelle meie napulitane?"

con la sua canzone Napoli è sempe Napule, musicata nel 1914 dal maestro Enrico Cannio:

Nce hanno levato 'o suono d' ‘e tamorre,
‘a tarantella nun s'abballa cchiù,
ecc., ecc.

Un canto allegro e malinconico insieme che rispecchia lo stato d'animo di quel tempo precedente la prima guerra mondiale.

Fa eco, dopo la stessa guerra, Edoardo Nicolardi che scrive e canta con malinconia:

"Ce sta' ancora nu guappo antico
ca s''a vede c''o settesorde?
………
Ce sta ancora quacche triato
addò ride Pulecenella?

Lo stesso Pasquariello canta in teatro di varietà:

"Torna, canzona mia, comm'a ‘na vota,
cchiù semplice, gentile e appassionata:
Torna a `o paese bello addò si nata,
ca già saie quanto te sapimmo amà".

Lo stesso grande interprete Gennaro Pasquariello con questa canzone chiude inconsapevolmente un periodo di grande splendore, afferman­do così l'avvenuta conclusione del ciclo otto-novecentesco della canzone napoletana. È doveroso parlare a conclusione di questo periodo anche degli editori musicali nati ed operanti a Napoli, nonché degli interpreti principali della canzone napoletana. La prima melodia, affidata alla bella voce di Partenope, come narra la leggenda, ella la diffuse nel suo golfo incantato con la forza del suo amore, quell'amore che sa superare tutti gli ostacoli per sopravvivere in eterno nel ricordo dei suoi figli che hanno saputo conservare, nel loro animo la passione per quanto loro assegnato e tramandato da una generazione all'altra. La canzone è stata sempre una serenata che l'uomo ha sempre cantato per amore o per levarsi di malinconia, ha sfidato i tempi, nonché la pazienza dei popoli, tanto che Federico II emanò un editto per proibirne le esecuzioni notturne e il proliferarsi di esse. Attraverso varie vicissitudini arrivò alle copielle stampate con i versi e il canto melodico per approdare, poi, alla posteggia al pianino, la prima nei ristoranti alla moda e il secondo nei vicoli della città dove la canzone veniva affidata ai barbieri, ai sarti, alle stiratrici e alle belle ragazze che sognavano l'amore. A questo periodo si affiancò quella del teatro di "varietà" con le ardite operazioni degli editori che, delle famose audizioni di Piedigrotta, (quali spettacoli teatrali per il lancio di nuove canzoni con i più noti artisti di quel periodo) ne fecero un affare commerciale per la diffusione della canzone a carattere industriale anticipando nel tempo la discografia. Gli editori più noti furono tra i primi: Bideri, Santojanni, Società Musicale Napoletana, Ricordi, Izzo, La Canzonetta, La Poliphon, Gennarelli, Santa Lucia, Ceccoli, ecc.
L'editoria musicale prese l'avvio verso il 1880 e si sviluppò fino alla prima guerra mondiale, per poi rinnovarsi e riproporsi con nuove case editrici che, spesso, venivano ricostituite dagli stessi autori.
Alcune rimanevano in vita solo un anno, altre riuscivano a superare le prime difficoltà finanziarie per poi finire nelle fauci di grossi editori. Furoreggiavano allora il teatro Eden e il Salone Margherita e questi locali videro il trionfo delle "canzonettiste" e fra queste emersero per bellezza e intelligenza: Lina Cavalieri, Emilia Persico, Carmen Mari­ni, Ersilia Sampieri. Dei cantanti uomini di quell'epoca si ricordano: Arturo Ciotti, Bernardo Cantalamessa, Diego Giannini e il tenore De Lucia.
In quel periodo sorgono due grandi interpreti della canzone napoleta­na: Gennaro Pasquariello (8-9-1869 / 20-1-1958) ed Elvira Donnarumma (18-4-1882 / 22-5-1933), nonché il grande ed immorta­le Enrico Caruso (25-2-1873 /2-8-1921). Questi hanno reso eterna la canzone napoletana con le loro interpretazioni e con la loro inconfondibile voce: Napoli li ricorda sempre e ne è riconoscente. Altri artisti si affacciarono dopo alla ribalta della canzone napoletana e ne consolidarono il successo: Raffaele Viviani e sua sorella Luisella, Giuseppe Godano, Rodolfo Giglio, Salvatore Papaccio, Vittorio Parisi, Armando Gill, Gabré e Mario Pasqualillo. Tra le donne primeggiarono invece Anna Foguez, Tina Castigliana, Tecla Scarano, Ester Baroni, Ada Bruges, Lina Resal, Ria Rosa, Gilda Mignonette. Le macchiette quale genere molto vicino alla canzone, ebbe come brillanti e geniali interpreti Nicola Maldacea e Peppino Villani.

La canzone napoletana oggi

Negli anni venti e trenta la canzone fu regolarmente inquadrata come cultura del regime fascista e lo scoppio della seconda guerra mondiale segnò definitivamente la conclusione del ciclo ottocentesco della canzone napoletana, perché gli artisti in tutte le loro aspirazioni si erano per sempre allontanati dal sentimento e dal canto del popolo. Questo declino fu accentuato dai nuovi mezzi di diffusione del suono e dell'immagine, cioè dalla Radio, dalla Cinematografia sonora e infine dalla televisione che ha aperto orizzonti nuovi e impensabili ai ­compositori di musica leggera e ai parolieri quali nuovi poeti e verseggiatori di canzoni. Mancando l'ispirazione viene meno la qualità della produzione stessa, anche se la discografia vede centuplicate le vendite dei dischi di musica leggera.
Dopo la seconda guerra mondiale la nostalgia e l'amore per Napoli fece brillare una stella nel firmamento della canzone napoletana: era la bella e struggente Munastero e' Santa Chiara di Michele Galdieri con la musica di Alberto Barberis. Il sentimento del popolo di Napoli si manifestò puro e sincero come una volta nella canzone: Simme ‘e Napule, paisà! di Giuseppe Fiorelli con musica di Nicola Valente e lo stesso dicasi di Luna Rossa con versi di V. De Crescenzo e musica di Vian un'altra canzone, invece, fu un elemento di rottura contro un metodo "chiagnazzaro" di presentare e cantare le nuove canzoni delle varie audizioni di Piedigrotta delle varie case editrici musicali di Napoli, questa era Scapricciatiello su versi di Pacifico Vento e musica di Ferdinando Albano interpretata da un giovane artista nella Piedigrotta Bideri 1954: Aurelio Fierro.
Poi arrivarono i Festivals della Canzone Napoletana che vanno dal 1952 fino al 1969 dove lo stesso artista portò al successo altre canzoni napoletane, quali: Guaglione, Lazzarella, Vurria, ‘A sonnanabula, ‘A pizza ecc. Questo successo sembrava ridare fiducia alla canzone napoletana per una ripresa e un rilancio vero, ma sono trascorsi circa 24 anni ed il silenzio assoluto, ma non inspiegabile, domina l'orizzonte della rinascita: Napoli non canta più, non sa più cantare, anzi, dice che ancora ricorda le vere canzoni nate dal popolare, puro sentimento di autentici napoletani. Intorno, anche se raramente, non del tutto ospiti, si sentono i sintomi di un risveglio felice della nostra canzone: dorme come il Vesuvio, però di tanto in tanto manda un segnale per farci capire che è viva ancora e che all'improvviso potrà scoppiare un successso che segnerà l'inizio di questo ritorno all'antico splendore.