Mio fratello Massimo Troisi
di Rosaria Troisi
ERA una sera del 1953. Avevo otto anni ed ero stata accolta nel lettone di mia zia, che dormiva nella stanza da letto attaccata a quella dei miei genitori. Mentre tendevo l'orecchio per capire cosa stava accadendo dall'altra parte della parete, all'improvviso sentii la voce gioiosa di nonno Pasquale che esclamava: "'O purciell'! 'O purciell'!". Era nato mio fratello. Pesava cinque chili e il nonno fu il primo a prenderlo fra le braccia. Era un bambinone pieno di vita e aveva sempre così tanta fame che presto il latte di mia madre cominciò a non bastare più. Lei si arrese a integrarlo con quello in polvere e poiché persino la capienza del biberon stava diventando insufficiente, lo sostituì con una bottiglia di birra, su cui applicò un ciucciotto. Da lì Massimo iniziò a poppare, crescendo forte e robusto. Custodisco gelosamente una vecchia foto di giornale un po' sbiadita: è una pubblicità della Mellin, il latte in polvere che ha nutrito generazioni di bambini. Il piccolo testimonial è proprio Massimo. Quando aveva pochi mesi, nostra madre aveva provato per gioco a inviare la sua foto e loro l'avevano pubblicata, con sua grande sorpresa e immenso orgoglio.
Palazzo Bruno

Massimo è nato a San Giorgio a Cremano, piccolo paese stretto tra il mare e il Vesuvio, un posto fuori mano, che allora più che mai
era una periferia all'ombra di Napoli. Abitavamo in quello che chiamavano 'o palazz'e Bruno miezz'e Tarall, un palazzone di sei piani rimasto in piedi fino al 1978. Vi erano lunghi ballatoi su ognuno dei quali si affacciavano le porte di due appartamenti. Nel nostro, al terzo piano, abitavano anche i nonni e gli zii. Siamo cresciuti molto uniti e la famiglia ha avuto per noi valore al di sopra di tutto, facendoci sentire forti e invincibili. Ancora oggi è evidente quanto ci assomigliamo nei comportamenti, nei gesti, nelle espressioni. Io, Massimo, Annamaria, Vincenzo, Luigi e Patrizia: sei fratelli cresciuti senza merendine e con giochi inventati. Fra di noi si creavano alleanze a seconda delle età e Massimo per esempio era molto legato a Patrizia, la più piccola. Avevano l'abitudine di giocare con una palla di carta nella camera da letto dei nostri genitori. Quando facevano cadere i pendenti del lampadario con le pallonate, Massimo e Patrizia diventavano complici e anche quando di quei pendenti ne rimasero solo due, nessuno di loro avrebbe mai confessato. La complicità fra me e Massimo passava attraverso altre forme di condivisione. Entrambi, fin da bambini, siamo stati molto curiosi di quello che succedeva nel mondo. Mio padre, ferroviere, di ritorno dal lavoro portava a casa le riviste e i quotidiani che i viaggiatori abbandonavano sui sedili dei treni. Noi allora facevamo a gara a chi riusciva a leggere più notizie memorizzando anche i particolari più marginali della cronaca.
Arrivano i mostri

Noi ragazzi stavamo crescendo ed era sempre più complicato vivere nei ristretti spazi della casa di piazza Tarallo. Così, nel 1956 ci trasferimmo in via Cavalli di bronzo, a pochi metri dalla piazza principale del paese. Fu in quel periodo che Massimo iniziò a coltivare la sua passione per il calcio. I finestroni della nuova casa affacciavano su uno spiazzo incolto e su quel campetto polveroso lui trascorreva tutto il tempo che poteva. Se in quel periodo gli avessero chiesto cosa avrebbe fatto da grande, avrebbe risposto il calciatore. Questo sport era del resto una passione per tutti i miei fratelli, cresciuti con un padre ex calciatore e una madre tifosa. Massimo giocava nel ruolo di terzino e papà si guardava bene dal far trasparire il suo entusiasmo per non fargli montare la testa, ma nei suoi occhi si leggeva grande orgoglio per quel piccolo calciatore così pieno di grinta e di talento. La passione per il pallone sottraeva decisamente a Massimo il tempo che avrebbe dovuto dedicare ai libri di scuola. Ripeté la seconda media per tre volte e cominciò a disamorarsi della scuola. Mi viene in mente Salvatore, un suo compagno di scuola che abitava nel nostro palazzo. Veniva portato in palmo di mano da tutti perché era il primo della classe e per Massimo era un tormento sentirsi mettere di continuo a confronto con lui. Dello spauracchio di Salvatore rimane traccia in Ricomincio da tre, nella scena in cui Gaetano racconta a Frankie di un bambino prodigio che gli aveva rovinato l'infanzia. Quel mostro sapeva le tabelline a memoria, conosceva le capitali di tutto il mondo e suonava perfino il pianoforte. I genitori avrebbero dovuto tenerlo insieme ai "mostri" come lui - concludeva Gaetano con una riflessione che Massimo doveva aver fatto tante volte da bambino - piuttosto che fargli rovinare la vita agli altri.
Voglio una bicicletta

In quel periodo i nonni materni abitavano con noi. Era la casa della "compagnia stabile", come Massimo aveva definito la nostra famiglia. E davvero in famiglia non mancavano mai spunti esilaranti. Mi è rimasto impresso nella memoria uno dei primi spettacoli che Massimo fece per noi quando aveva circa sei anni. Era la festa della Befana e come ogni anno nostro padre aveva portato a casa i regali che le Ferrovie dello Stato destinavano ai figli dei dipendenti. Negli anni i miei fratelli si erano visti recapitare sempre e solo trenini elettrici, così Massimo aveva deciso di scrivere una lettera alla Befana chiedendole, una volta per tutte, di portargli una bicicletta. Ma ecco che quel 6 gennaio arrivò l'ennesimo trenino. Con grande divertimento del suo piccolo pubblico familiare, Massimo inscenò allora il suo primo mini-sketch: "Ma chest è scema proprio? Ma io l'ho scritto accussì bell': VOGLIO UNA BICICLETTA. E chella che ffa? M' porta n'atu treno? Chest s'è rimbambita!".
Un altro De Filippo

Un giorno si presentò l'occasione che consentì a Massimo di mettersi alla prova. Ce lo vedemmo tornare da scuola con gli occhi sgranati e il visino accaldato, il grembiulino blu come al solito stropicciato e il colletto di piqué bianco tutto storto. Era euforico come quando tornava vittorioso da una partita di calcio. Ci annunciò tutto fiero che era stato scelto per interpretare il ruolo di Pinocchio nella recita di fine anno della quinta elementare. Era la prima volta che Massimo riusciva a liberarsi della sua timidezza e con quel debutto cominciò a esplorare la sua predisposizione per la scena. In seguito, quando gli chiedevano come nascevano i suoi sketch, lui rispondeva: "A scuola, mentre 'o professore spiega Dante e Machiavelli". Una volta si esibì in un monologo in un'assemblea di protesta per il mancato riscaldamento delle aule e il vicepreside andò via commentando: "Sta facendo l'attore! È uscito un altro De Filippo!".
La scuola andava male a lui

Il periodo della scuola superiore fu per Massimo il momento in cui iniziò a vivere intensi rapporti d'amicizia. Indimenticabili le scarrozzate al colle di Sant'Alfonso, ammassati nella vecchia utilitaria di qualche compagno di classe più benestante. La meta preferita era la spiaggia. Arrivavano con i libri ingombranti sottobraccio, le scarpe in mano e i calzoni arrotolati e poi, come per magia, riusciva sempre a sbucare fuori un pallone. Quando arrivava l'estate cominciavano i primi bagni. Una volta, uscito dall'acqua Massimo non ritrovò più i suoi vestiti. La cosa peggiore era che gli avevano rubato anche le chiavi di casa e la tessera dell'abbonamento al treno. La preoccupazione principale era di non farlo sapere a nostro padre, e così un suo amico venne a casa di nascosto a prendere un cambio per Massimo.
Non è difficile intuire quanto la sua carriera scolastica sia stata lenta e difficoltosa. Il suo professore di lettere fu uno dei pochi a cogliere nel segno e nel ricordare Massimo una volta scrisse: "Non era lui che andava male a scuola. Era la scuola che andava male a lui. La sua fantasia rompeva i muri, i vetri, le pareti di quell'ambiente. Lui si realizzava fuori".
Vedete telefoni qui?

Quando Massimo cominciò a muovere i primi passi in teatro, mio padre non la prese di buon grado. Non avrebbe mai pensato che ce l'avrebbe fatta a sfondare e gli ripeteva sempre: "Ma può essere mai che ti pigliano proprio a te?". E invece sì, alla fine era successo. Nostro padre era felice anche se era continuamente in apprensione per la sua salute e brontolava vedendolo sempre in viaggio. Massimo dal canto suo, pigro come era, scriveva e telefonava di rado. Mi viene in mente una cartolina che Massimo ci spedì dal Costa Rica. Un paesaggio deserto in cui non si vede nulla se non una distesa di sabbia e mare. Evidentemente il senso di colpa per non essersi fatto vivo da laggiù non gli stava dando tregua e cercò di metterlo a tacere con una della sue trovate: "Vedete telefoni qui?".
Lo zio fa l'attore

Massimo era molto legato ai suoi nipoti. Nel '77, quando nacque mia figlia Lynda, le scrisse un tenero biglietto come augurio di benvenuto al mondo, in un'epoca decisamente poco rassicurante. Continua a custodirlo come un tesoro, lei che insieme ai suoi cugini è cresciuta abituandosi a riconoscere in televisione l'immagine di quello zio famoso. Ma per tutti loro non c'era differenza fra l'immagine sullo schermo e quella dello zio affettuoso e paziente con cui si divertivano a giocare a casa. Noi adulti, poi, chiarivamo sempre che quello che veniva a trovarci non era l'attore: quello che girava per casa in pigiama, che discuteva a tavola con noi o che si appartava per ore intere al telefono, insomma, era sempre zio Massimo.

Sollevo lo sguardo in quella che un tempo era stata la sua cucina. Mi guardo attorno mentre sto scrivendo sul suo tavolo, ora ingombro di fogli, fotografie, appunti sparsi ed è come se questo spazio così pieno di lui non possa ammettere la sua assenza. Lo rivedo per un attimo seduto al suo posto a capotavola. Per me è come se fosse ancora lì.
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