Territorio

Il Regno comprendeva le attuali regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia e Sicilia, oltre a gran parte dell'odierno Lazio meridionale. Al Reame, inoltre, apparteneva, incluso amministrativamente nella provincia di Capitanata, l'arcipelago di Pelagosa, oggi parte della Croazia.
Le città di Benevento (oggi in Campania) e Pontecorvo (oggi nel Lazio) erano, invece, delle enclave pontificie.

Suddivisione amministrativa

La principale suddivisione del Regno, sebbene non avesse essa carattere amministrativo, era fra la sua parte continentale, i Reali Domini al di qua del Faro, e la Sicilia, i Reali Domini al di là dei Faro, con riferimento, quindi, al Faro di Messina.
Dal punto di vista amministrativo, invece, il Regno era suddiviso in 22 province, di cui 15 nella Sicilia citeriore (ex Regno di Napoli) e 7 nella Sicilia ulteriore (ex Regno di Sicilia), a loro volta suddivise in distretti (unità amministrative di secondo livello) e circondari (unità amministrative di terzo livello).

Origine dei nome

La prima menzione ufficiale si ha quando Alfonso V d'Aragona unifica solo formalmente il Regno di Sicilia e il Regno di Napoli sotto la corona di Rex Utrius que Siciliae. L'uso dei termini Regno di Sicilia al di là del faro e Regno di Sicilia al di qua dei faro, in riferimento al faro di Messina e quindi all'omonimo stretto, ha però origine già quando, incoronato Carlo I d'Angiò da Clemente IV rex Siciliae, la corte aragonese di Catania e Palermo rivendicava per sé tale titolo.
La Pace di Caltabellotta, nel 1302, diede questa separazione (secondo gli accordi, alla morte del re aragonese Federico d'Aragona, l'isola sarebbe dovuta tornare agli Angioini, cosa che in realtà non avvenne).
Sotto il governo spagnolo i due regni continuarono ad essere del tutto indipendenti, uno con capitale Napoli, l'altro con capitale Palermo.
Nel 1816, all'indomani del Congresso di Vienna e dei Trattato di Casalanza, Regno di Napoli e Regno di Sicilia furono per la seconda volta ufficialmente riunificati, dopo quasi 600 anni, con il nome di Regno delle Due Sicilie.

Storia e politica del Regno

Prima della Rivoluzione francese del 1789 e delle successive campagne napoleoniche, la dinastia dei Borbone regnava negli stessi territori, ma questi risultavano divisi nel Regno di Napoli e nel Regno di Sicilia. Generalmente si conviene comunque di inserire nella trattazione storica dei Regno delle Due Sicilie tutto il periodo di sovranità borbonica sui regni di Napoli e Sicilia (a partire dunque dal 1734) per un'evidente continuità tra le diverse entità statali.

Il XVIII secolo

Carlo di Borbone

II 10 maggio 1734 Carlo di Borbone, figlio di Filippo V re di Spagna, fece il suo ingresso a Napoli; il 25 maggio 1734 sconfisse definitivamente gli austriaci a Bitonto, conquistò poi la Sicilia e il 2 gennaio 1735 assunse il titolo di Re di Napoli "senza numerazione specifica"; in luglio venne incoronato a Palermo anche Re di Sicilia. Nel frattempo, con decreto dell'8 giugno 1735, provvide ad istituire un nuovo organo con funzioni consultive e giurisdizionali: la Real Camera di Santa Chiara.

Il regno non ebbe un'effettiva autonomia dalla Spagna fino alla pace di Vienna, nel 1738. Secondo gli accordi stipulati, l'Austria cedeva a Carlo Ill di Borbone Io Stato dei Presidi, il Regno di Napoli nonché il Regno cli Sicilia, che essa aveva scambiato con la Sardegna nel 1720 a seguito della Pace dell'Aja. Nell'agosto 1744 il Real Esercito, guidato dal re Carlo, sconfisse a Velletri gli austriaci che tentavano di riconquistare il regno.

La situazione politica ed economica ereditata da Carlo nel 1734 era disastrosa, infatti egli prese il potere in un regno depauperato dalla esosa fiscalità spagnola, particolarmente pesante nella seconda metà del viceregno spagnolo (fattore che un secolo prima scatenò la rivolta guidata da Masanleilo), e dal continuo prelievo di uomini dalle campagne che, arruolati nelle armate spagnole, combatterono nelle principali guerre europee ed americane.
Tra le prime riforme intraprese dal sovrano va ricordata la lotta ai privilegi ecesstici: nel 1741, con un concordato furono drasticamente ridotti ii diritto d'asilo ed altre immunità; i beni ecclesiastici furono sottoposti a tassazione. Analoghi successi non si ebbero tuttavia nella lotta alla feudalità: le iniziative che minacciavano maggiormente gli interessi dei ceti privilegiati furono infatti boicottate dal ceto nobiliare.
Durante il governo di Carlo, le cui riforme provvidero a riparare i malanni nati nel precedente periodo vicereale, si registrò un notevole sviluppo dell'economia, dovuto all'aumento della produzione agricola e degli scambi commerciali connessi. il rifiorire del commercio fu reso possibile grazie anche alla conclusione di vari trattati commerciali e con la lotta al flagello della pirateria moresca. Nel 17 fu istituita presso l'università di Napoli la prima cattedra di economia politica in Europa, affidata al grande teorico delleconomia Antonio Genovesi, il cui pensiero influì molto sull'illuminismo dell'italia meridionale e i corsi (in italiano e non in latino) furono seguitissimi. Questi segnali di risveglio dei due regni furono parte dell'epoca che vide in tutta Europa il fiorire, con il cosiddetto dispotismo illuminato, di esperienze di rinnovamento dall'alto.

Ferdinando IV e la Repubblica Napoletana

Nel  1759 alla partenza di Carlo, divenuto re di Spagna, salì al trono all'età di soli 8 anni Ferdinando. Principale esponente del Consiglio di Reggenza fu il marchese Bernardo Tanucci, il quale ebbe in mano le redini dei due regni e continuò le riforme iniziate in età carolina. In campo giuridico, molti progressi furono resi possibili dall'appoggio dato al ministro Tanucci da Gaetano Filangieri, il quale, con la sua opera "Scienza della legislazione" (iniziata nel 1777), può essere considerato tra i precursori del diritto moderno.

Re Ferdinando sposò Maria Carolina, figlia dell'imperatrice Maria Teresa e sorella della regina di Francia Maria Antonietta. La nuova regina (in forza di una specifica clausola dei patti matrimoniali che le consentiva di partecipare al Consiglio di Stato dal giorno della nascita dell'erede al trono) partecipò attivamente, a differenza del marito, al governo del regno.
Gli unici campi, infatti, in cui Ferdinando si impegnò personalmente furono le opere pubbliche, i rapporti con la Chiesa e la realizzazione della colonia di San Leucio (Caserta), esperimento di legislazione sociale e di sviluppo manifatturiero, anche se ad ispirare il codice delle leggi leuciane fu la stessa regina che volle sperimentare nella Real Colonia una normativa egualitarista.

Nei primi anni di governo, Maria Carolina si mostrò sensibile alle istanze di rinnovamento e moderatamente favorevole alla promozione delle libertà individuali. Tale tendenza subì tuttavia una brusca inversione di rotta dopo la Rivoluzione francese, quando la soppressione della monarchia, l'esecuzione del Re e gli anni del terrore portarono al diffondersi di un vasto timore nei ceti dominanti ed alla richiesta di opporsi ad ogni istanza riformatrice.
Dopo la decapitazione dei regnanti francesi le misure repressive dei Borbone di Napoli portarono ad un'insanabile frattura tra la monarchia e la classe intellettuale che fino a quel momento era stata in dialogo con la stessa regina Maria Carolina, impegnata nei programmi del dispotismo illuminato.

I Francesi erano già entrati in Italia nel 1794 con Napoleone Bonaparte, che era riuscito facilmente ad aver ragione delle armate austriache e dei deboli governi locali. Nel 1796 i francesi occuparono Roma. Un tentativo di contrastare i transalpini fu attuato delle truppe del Regno di Napoli: il 23 ottobre, 70.000 uomini dell'esercito napoletano, al comando del generale austriaco Karl von Mack, penetrarono nel territorio della Repubblica Romana per ristabilire l'autorità papale, ma, il successivo 14 dicembre, una controffensiva francese li costrinse ad una repentina ritirata.
L'operazione, dunque, si risolse in un insuccesso e così i Francesi si trovarono la strada aperta verso Napoli. II 22 dicembre 1798, il re abbandonò il regno di Napoli per andare in Sicilia, lasciando la città di Napoli praticamente indifesa; gli unici ad opporsi all'invasione francese (daI 13 al 23 gennaio 1799) furono i cosiddetti Iazzari.
I popolani opposero alle truppe d'oltralpe una resistenza disperata ma tenace, come riconobbe lo stesso generale francese Championnet.
I lazzari subirono anche un bombardamento dagli stessi giacobini napoletani che erano riusciti a prendere il forte di Castel Sant'Elmo.
La battaglia per la conquista della città costò la vita a circa 8.000 napoletani e 1.000 francesi.
II 22 gennaio 1799 mentre i Iazzari ancora combattevano, i giacobini napoletani proclamarono la repubblica.

La Repubblica Napoletana non ebbe lunga vita, travolta dalla reazione europea e incapace di garantirsi l'adesione dei ceti popolari e delle province non occupate dall'esercito francese. Fu pesante il controllo esercitato dai francesi che temevano una reale forza ed indipendenza di una libera Repubblica, con un vasto territorio, in Italia.
Il governo repubblicano, tuttavia, promosse importanti innovazioni (soprattutto per sancire la fine della feudalità, gravosa per le popolazioni rurali e per l'ordinamento giudiziario), che però non riuscirono a trovare pratica attuazione nei soli cinque mesi di vita della Repubblica.
Di valore europeo fu il contributo intellettuale fornito dal ceto liberale meridionale, testimoniato dal giornale "Monitore Napoletano", diretto da Eleonora Pimentel Fonseca, straordinaria figura di donna impegnata nella battaglia democratica fino al supremo sacrificio. Nei territori provinciali si susseguirono rivolte popolari; furono densi di episodi di ferocia sia le "insorgenze" anti-repubblicane sia la repressione attuata dai partigiani della Repubblica Napoletana e, soprattutto, dai soldati francesi. Così, se durante i pochi mesi della repubblica vennero condannati a morte e fucilati, dopo formali processi politici, 1.563 cittadini del Regno, altrettanto duro tu il comportamento del cosiddetto Esercito della Santa Fede, costituito in buona misura da popolani, lazzari e anche da alcuni famigerati briganti, come Fra Diavolo.
II 13 giugno 1799, i sanfedisti, comandati dal cardinale Fabrizio Ruffo, ripresero la città di Napoli restituendola alla monarchia borbonica (regnante, durante la Repubblica, sul solo Regno di Sicilia). Nel frattempo, il 7 maggio, la città partenopea era stata già abbandonata dai francesi, richiamati nel settentrione d'italia a causa dell'ingresso in Italia dell'esercito russo di Suvorov (il 29 maggio avrebbero dovuto abbandonare anche la Repubblica Cisalpina). I francesi in ritirata portarono al loro seguito un lauto bottino in opere d'arte (trafugate dalle Chiese e dalle residenze nobiliari napoletane). Nei mesi seguenti, una giunta nominata da Ferdinando cominciò i processi contro i repubblicani: fatti prigionieri e condannati a morte o all'ergastolo, pochissimi i liberati.

Il XIX secolo: il periodo napoleonico e l'unificazione dei due regni

II periodo napoleonico

Il successivo quinquennio vide il governo borbonico dei due regni seguire una politica altalenante nei confronti della Francia napoleonica che, per quanto ormai egemone sul continente, rimase sostanzialmente sulla difensiva sui mari: questa situazione non consentì al Regno napoletano - strategicamente posizionato nel Mediterraneo - di mantenere una stretta neutralità nel conflitto a tutto campo fra Inglesi e Francesi.
Dopo la vittoria di Austerlitz del 2 dicembre 1805, Napoleone regolò definitivamente i conti con Napoli dichiarando decaduta la dinastia borbonica e nominando suo fratello Giuseppe Bonaparte Re di Napoli.
Ferdinando, rifugiatosi nuovamente nel regno di Sicilia, dovette ben presto fare i conti con l'insidiosa politica britannica, volta a trasformare l'isola in un protettorato (come nel frattempo già awenuto con Maim). A Giuseppe Bonaparte, nel 1808 destinato a regnare sulla Spagna successe Gioacchino Murat, regnante sino a maggio  che riprese per sé il titolo di Re delle Due Sicilie cancellando l'autorità amministrativa del Regno di Sicilia in cui si era rifugiato Ferdinando I di Borbone e accentrando il potere con un'unica nazione con capitale
Napoli.
Durante la reggenza napoletana di Giuseppe Bonaparte, il 2 agosto  fu emanata la celebre legge che pose fine al sistema feudale nel Regno di Napoli. La lotta alla feudalità, ripresa in questo periodo con gran vigore, con il fondamentale contributo di giuristi come Giuseppe Zurlo e Davide Winspeare, fu continuata da Gioacchino Murat e alla fine riuscì a portare ad un taglio netto col passato ed alla nascita della proprietà borghese. Tuttavia le riforme riuscirono solo in parte a raggiungere il loro obiettivo principale: cioè far nascere una piccola e media proprietà contadina, infatti ciò avvenne solo nelle aree più sviluppate del regno. La fine della feudalità portò comunque notevoli progressi anche in campo giurisdizionale ed amministrativo.
Le riforme attuate nel regno durante il periodo francese riguardarono direttamente anche la città di Napoli, che vide notevolmente ridimensionato il suo ruolo di città egemone rispetto al resto del regno. Sul piano amministrativo, infatti, il nuovo governo seguì una linea rivolta a decentrare alcune funzioni che in passato erano state prerogativa esclusiva di Napoli. Nuovo rilievo acquistarono i capoluoghi provinciali e un decentramento analogo avvenne anche nei settori delle altre amministrazioni, militare, giudiziaria e finanziaria.

La restaurazione borbonica

Il secondo ritorno di Ferdinando a Napoli non fu caratterizzato da repressioni. Il sovrano mantenne gran parte delle riforme attuate dai francesi (fu però, ad esempio, abolito il divorzio), ponendosi di fatto così a capo di una più moderna monarchia amministrativa basata sui codici napoleonici.
Unico taglio di rilievo con il periodo napoleonico si ebbe nei rapporti con la chiesa, che tornò ad occupare un ruolo di primo piano nella vita civile del Regno. Dopo il Congresso di Vienna ed il Trattato di Casalanza (20 maggio 1815), 18 dicembre  Ferdinando IV riunì in un unico stato i regni di Napoli e Sicilia con la denominazione di Regno delle Due Sicilie, abbandonando per sé il nome di Ferdinando IV di Napoli e Ill di Sicilia ed assumendo quello di Ferdinando I delle Due Sicilie.
Tale atto ebbe, tra l'altro, la conseguenza di privare di fatto la Sicilia della Costituzione promulgata dallo stesso Ferdinando.
Sino al Congresso di Vienna, il Regno di Sicilia aveva mantenuto la propria indipendenza, rappresentato dal Parlamento Siciliano, nonostante l'unione personale (ovvero unico Re per due Regni) con il Regno di Napoli; nei fatti erano due regni indipendenti l'uno dall'altro; Ferdinando riservava tuttavia maggiori attenzioni verso quest'ultimo, provocando grossi scontenti nella popolazione siciliana.
Nel 1812, il Re Ferdinando I di Borbone, scappando da una Napoli occupata da Napoleone, si rifugiava in Sicilia, dove ad attenderlo vi erano gli onori dell'occasione, e non solo: i Siciliani chiesero a gran voce una Costituzione che sapesse garantire una migliore stabilità dello Stato e una maggiore certezza del diritto. Spinto indirettamente anche dagli interessi economici che gli inglesi avevano sull'isola, Ferdinando concesse la Costituzione, di chiara ispirazione inglese, che successivamente diventò esempio di liberalità per i tempi.
Nel 1814, però, a seguito del Congresso di Vienna, il Re Ferdinando I di Borbone, compì un vero e proprio colpo di mano: riunì il Regno di Sicilia e il Regno di Napoli sotto una sola Corona, formando il neonato Regno delle Due Sicilie; questo fece in modo che il Parlamento Siciliano non avesse più senso e di fatto decadesse. La monarchia borbonica compì la sua restaurazione, non ripristinando l'unione dei regni di Napoli e di Sicilia allo status quo ante 1789, bensì attuò una scelta che fece fare un balzo indietro di cinque secoli e mezzo, restaurando il regno di Carlo I d'Angiò. L'atto venne visto dalla classe politica siciliana come un affronto verso quello che ininterrottamente, e da circa 700 anni, era stato un regno indipendente a tutti gli effetti.
Quasi immediatamente ebbe inizio una campagna anti-borbonica, accompagnata da una propaganda dell'identità siciliana, soprattutto per azione delle élites arïstocratïche di Palermo. Questo sfociò neI 1820, in una rivoluzione, iniziata a Palermo, che portò all'insediamento di un governo provvisorio, dichiaratamente separatista. Tuttavia, la mancata coordinazione delle forze delle varie città siciliane, portò all'indebolimento del potere del governo provvisorio (Messina e Catania osteggiarono la rivendicazione di Palermo a voler governare l'isola), che ben presto decadde sotto i colpi della repressione borbonica. Il primo luglio, alla notizia che in Spagna era stata ripristinata la Costituzione del 1812, insorse a Nia un gruppo di militari capeggiato dai sottotenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati. La rivolta fu appoggiata anche da alti ufficiali tra i quali si distinse il generale Guglielmo Pepe. Ferdinando, constatata l'impossibilità di soffocare la rivolta, concesse la Costituzione spagnola e nominò suo vicario il figlio Francesco. II primo ottobre iniziarono i lavori del nuovo parlamento nel quale prevalevano gli ideali borghesi diffusi nel decennio francese. Tra gli atti del parlamento vi furono la riorganizzazione delle amministrazioni provinciali e comunali ed un prowedimento sulla libertà di stampa e di culto.
Le novità introdotte nel Regno Due Sicilie dopo i moti insurrezionali del  non furono però gradite dai governi delle grandi potenze europee, che convocarono Ferdinando a Lubiana. Alla partenza del re si oppose, tra gli altri, il principe ereditario Francesco. In seguito al Congresso di Lubiana il Regno fu invaso dalle truppe austriache che nel marzo 1821 sconfissero l'esercito costituzionale napoletano comandato dal generale Guglielmo Pepe. A fiaccare Io spirito combattivo dell'esercito napoletano valse anche un proclama del re Ferdinando che, al seguito degli Austriaci, invitava a deporre le armi e a non combattere coloro che venivano a ristabilire l'ordine nel Regno.
I 23 marzo 1821 Napoli venne occupata, la costituzione venne sospesa e cominciarono le repressioni: si contarono alla fine 13 ergastoli e 30 condanne a morte, tra cui si ricordano quelle di Morelli e Silvati - eseguite nel 1822 - e quelle di Michele Carrascosa e Guglielmo Pepe, che non vennero mai eseguite in quanto i due ufficiali riuscirono a fuggire dal Regno.

Francesco I delle Due Sicilie

Ai primi di gennaio del 1825 il re Ferdinando I morì e salì al trono suo figlio Francesco I. I suoi sei anni di Regno furono caratterizzati da molti progressi in campo economico e tecnologico. Sul piano politico egli perseguì una politica reazionaria, pur avendo avuto un atteggiamento favorevole nei confronti dei moti rivoluzionari durante il regno dei padre.

Ferdinando II, le riforme e il 1848

Alla morte di Francesco I, il Regno passò al figlio Ferdinando Il, allora solo ventenne, Il nuovo giovane sovrano dimostrò subito idee progressiste ed un atteggiamento affabile verso il popolo. Il suo governo, infatti, fu caratterizzato da riforme volte a migliorare l'economia e l'amministrazione.
In particolare, in campo finanziario fu attuata una notevole diminuzione della fiscalità, resa possibile, tra l'altro, da una oculata spesa pubblica e dalla diminuzione delle spese di corte. Ferdinando provvide a richiamare in patria e a reinserire negli incarichi numerosi esuli (tra i quali il generale Guglielmo Pepe) e reintegrare nelle loro funzioni i più meritevoli, riuscendo ad assicurarsi la fedeltà dell'esercito, ma anche tra gli impiegati e i funzionari congedati dopo il decennio francese.
In campo sociale intervenne per diminuire le pene per i condannati politici e si spinse verso nuovi metodi di amministrazione delle carceri, cercando di migliorarne le condizioni dei detenuti e applicando, per la prima volta, i principi della scuola positiva penale per il recupero dei malviventi.
In politica estera Ferdinando cercò di mantenere il Regno fuori dalle sfere di influenza delle potenze dell'epoca: "la sua parola d'ordine era "Indipendenza"'. Tale indirizzo era concretamente perseguito pur favorendo l'iniziativa straniera nel Regno, ma sempre in un'ottica di acquisizione di conoscenze tecnologiche che consentissero, in tempi relativamente brevi, l'affrancamento da Francïa ed Inghilterra; il che rese il sovrano (ed il Regno) inviso a queste grandi potenze europee e politicamente isolato.

Nel campo economico, infine, bisogna sottolineare il notevole sforzo industriale sostenuto con Ferdinando Il, che permise di pareggiare il confronto con gli altri stati europei. Svariati furono anche i primati registrati sotto il suo regno: la prima ferrovia (Napoli-Portici, inaugurata nel 1839), ed il primo faro lenticolare d'Italia, ai quali si affiancarono numerose altre innovazioni nel campo dell'ingegneria e dell'industria. Va bensì esplicitato che nel 1816 il Governo britannico si era fatto concedere da Ferdinando I il monopolio dello sfruttamento dello zolfo siciliano (il 90% della produzione mondiale) dietro un pagamento quasi irrisorio. Va ricordato che lo zolfo era una materia d'importanza strategica, con la quale si produceva la polvere da sparo e l'acido solforico; detenere il suo monopolio significava dominare una fonte essenziale per la guerra e l'industria del tempo. Ferdinando Il, deciso a ridurre la tassazione attraverso l'abolizione della tassa sul macinato decise di affidare il monopolio ad una società francese che concedeva un pagamento più che doppio rispetto all'inghilterra: questa misura innescò la cosiddetta 'questione degli zolfi". Parlmerston mandò subito una flotta militare davanti al Golfo di Napoli, minacciando di bombardare la città.
La guerra fu sfiorata con l'intervento di Luigi Filippo Re dei Francesi: il Re dovette rimborsare sia gli inglesi che i francesi per il presunto danno arrecato.
Il regno, però, fu nuovamente scosso da una rivoluzione indipendentista siciliana nel 1848, awenimento che innescò moti similari in quell'anno nel resto del Reame, nel resto d'italia ed in numerosi Stati europei, dall'Austria alla Francia alla Prussia, con risvolti anche molto importanti. II Re cercò di arginare le richieste liberali concedendo la Costituzione, per primo in Italia, con regio decreto del 29 gennaio, ispirandosi al modello francese - giudicato il migliore - (analogo criterio seguirà due mesi dopo il Regno di Sardegna). Paradossalmente, i moti quarantotteschi in Francia travolgevano, a fine febbraio, proprio quel miglior modello di Costituzione ed ¡I re Luigi Filippo di Borbone - Orleans. Concessa la Costituzione Ferdinando Il, avallando le richieste del nuovo governo, si fece inoltre promotore di grandi riforme di stampo schiettamente liberale, destinate purtroppo a rimanere solo sulla carta in seguito al precipitare degli eventi. Tra le molte riforme progettate dal governo costituzionale si ricorda ad esempio quella della Pubblica Istruzione, che venne affidata dal Re a Francesco De Sanctis.

La rivoluzione siciliana scoppiò nel gennaio del 1848 a Palermo, capitanata da Giuseppe La Masa.
Dopo sanguinosi scontri, La Masa, al comando dell'esercito popolare, riuscì a scacciare la luogotenenza generale e gran parte dell'esercito borbonico dalla Sicilia, costituendo un <(comitato generale rivoluzionario". Il comitato generale istituì un governo prowisorio a Palermo; tra le felicitazioni generali e l'ottimismo, Ruggero Settimo, un liberale moderato appartenente alla nobiltà siciliana, venne nominato presidente. L'11 febbraio venne promulgata la Costituzione, giurata il 24 febbraio, nel medesimo giorno della fuga di Luigi Filippo da Parigi. A seguito dei moti in Sicilia, il 25 marzo del 1848, si riunì il Parlamento Generale di Sicilia, con un governo rivoluzionario presieduto da Ruggero Settimo e composto da ministri eletti dallo stesso presidente che proclamò l'indipendenza dell'isola. All'ottimismo tuttavia seguì ben presto la disillusione; le forze politiche in coalizione apparvero infatti assai in contrasto: vi era nutrita presenza di liberali moderati, contrapposta a democratici e a qualche mazziniano. I campi che accesero la miccia delle rivalità furono soprattutto l'istituzione di una Guardia Nazionale e del suffragio universale, entrambe sostenute soprattutto da Pasquale Calvi, membro democratico del governo. Scarse prese di posizione vi erano soprattutto su che linea di comportamento intraprendere verso il governo di Napoli e la possibilità di prendere o meno parte alla formazione dello Stato Italiano, quest'ultima sostenuta solo dalla minoranza mazziniana.
Intanto, nonostante l'appoggio concreto delle città siciliane al governo provvisorio di Settimo, le aree rurali divennero scarsamente controllate, ed agitazioni contadine misero in serie difficoltà le amministrazioni locali.
Le elezioni nel Regno delle Due Sicilie costituzionale si tennero nel mese di aprile, ma il superamento di questa grave fase non pose termine a una disputa fra il Sovrano, che considerava la Costituzione appena concessa come base del nuovo ordinamento rappresentativo, e la parte più radicale dei neoeletti che, al contrario, intendeva "svolgerla" - come si diceva con terminologia apparentemente neutra - ovvero il primo atto del Parlamento sarebbe dovuto essere la modifica della Costituzione appena promulgata. In Sicilia intanto il 15 maggio 1848, il giorno successivo all'apertura della Camera, si ebbero a Palermo sbarramenti delle vie cittadine (in specie quelle prossime alla Reggia) con barricate da cui partirono fucilate in direzione dei reparti schierati. Questi disordini determinarono la reazione regia e lo scioglimento della Camera. Un mese dopo, il 15 giugno, si tennero nuove elezioni ma gli eletti furono in gran parte quelli della passata elezione. Dopo la prima seduta, la riapertura della Camera fu rinviata diverse volte di mese in mese fino al 12 marzo 49, quando fu riaggiornata "a tempo indeterminato".
La vita del neonato Parlamento siciliano fu dunque breve e già con il cosiddetto decreto di Gaeta Ferdinando Il di Borbone riconquistò il possesso della Sicilia grazie alle azioni militari guidate del Generale Carlo Filangieri (che adottò alcune strategie innovative riguardanti l'impiego delle forze da sbarco), sciogliendo l'assise e bombardando le piazzeforti della città di Messina (azione che fece guadagnare a Ferdinando Il l'appellativo di "re bomba"). La dura repressione borbonica dell'estate del 1849, contro un governo provvisorio ormai instabile, decretava la fine dell'esperienza del 1848-1849 e la creazione di una frattura quasi insanabile tra la classe politica siciliana e quella
napoletana.
Domate le fiamme rivoluzionarie divampate nel 1854 per far ritornare all'ombra della Corona le amministrazioni locali, in tutto il Regno furono sottoscritte delle petizioni con le quali i cittadini, rappresentati dai sindaci, richiedevano l'abolizione dello Statuto. Gli esponenti del mondo liberale sostennero che, per riconciliare la borghesia alla corona, fosse stato l'allora ministro segretario di stato Giustino Fortunato a concepire l'ingegnosa idea della petizione.
L'iniziativa della petizione, che suscitò polemiche da parte della stampa liberale, ebbe riscontri estremamente positivi sia ai di qua, sia al di là del Faro, dove fu fondamentale l'opera persuasiva compiuta dal generale Filangieri nei confronti della classe politica siciliana: quest'ultima, alla fine, accolse di buon grado le sottoscrizioni di ubbidienza al re. Solo una piccola minoranza di sindaci rifiutò di firmare, subendo via via la destituzione dalle loro cariche e la sorveglianza della polizia. Grandissima parte dei sindaci, dei proprietari e della popolazione, invece, aderì spontaneamente all'iniziativa, in quanto stanca dei disordini provocati dalla rivoluzione del 48.
La petizione si concludeva con la seguente richiesta: "Piaccia alla M.V. riprendere la concessione strappata dalla violenza e dalla perfidia con la violazione dei più sacri doveri, e preparata con le più sacrileghe ed inique mire settarie. Ritornino i popoli sotto l'unico potere del paterno Suo Scettro, e noi ed i nostri figli benediremo, colla restaurata potente forza della Monarchia assoluta, il nome sacro del nostro magnanimo buon Re Ferdinando ll". Raffaele De Cesare sostenne che la petizione di Fortunato venne poi distrutta nel  al momento dell'unità d'italia, poiché avrebbe rappresentato un atto ufficiale incompatibile con il plebiscito nazionale sostenuto dal governo sabaudo.

Anche se non vi fu una formale revoca della Costituzione, ma una sua "sospensione" a tempo indeterminato, dopo la ribellione siciliana Ferdinando Il non intraprese più una riforma costituzionale del Regno. Anche in questo caso vi fu un seguito di processi e condanne, tra cui quelle di Luigi Settembrini illustre figura di filosofo ed educatore, già autore della
Protesta del popolo delle Due Sicilie, Filippo Agresti e Silvio Spaventa. Al ristabilimento dell'assolutismo seguì una dura repressione dei movimento liberale ed il soffocamento dei tentativi insurrezionali (Carlo Pisacane).
Con gli eventi del biennio '48-49, le idee progressiste e l'atteggiamento tollerante di Ferdinando Il vennero meno: il sovrano assunse una condotta inflessibile che, da un lato, gli consentì di riprendere il controllo dei suo regno, ma, dall'altro, fece si che egli fosse dipinto come un "mostro" dalla stampa liberale europea.
Ad aggravare ulteriormente l'ostilità dei re verso le aperture politiche contribuì l'attentato alla sua persona compiuto da Agesilao Milano nel 1856. Questi, soldato calabrese con vecchie simpatie mazziniane, nel giorno 8 dicembre 1856, approfittando della vicinanza del re (intento a passare in rassegna le truppe), si avventò su Ferdinando li con
la baionetta procurandogli una profonda ferita all'addome che tuttavia non ebbe esiti fatali.
Ferdinando ll morì il 22 maggio 1859 a soli 49 anni in seguito ad una dolorosissima setticemia le cui cause sono tuttora controverse. Egli infatti fu colpito da un'infiammazione all'inguine durante il viaggio da Napoli a Bari per accogliere la giovane sposa del Duca di Calabria; questa infiammazione però non fu curata per tempo e gli ultimi tentativi di salvargli la vita avvennero ormai in fase avanzata di setticemia, dopo un travagliato viaggio per mare da Bari a Napoli.

Francesco ll e la fine dei Regno

Francesco ll salì al trono nel 1859 assieme alla sua energica consorte, Maria Sofia di Baviera (sorella della famosa "Sissi", moglie dell'imperatore Francesco Giuseppe). Di carattere mite, il suo regno per quanto breve fu molto intenso, in quanto dovette far fronte prima ad una sommossa scoppiata nel 3° Reggimento Svizzero a Napoli (in conseguenza del fatto che il governo elvetico quell'anno decise che i suoi cittadini non avrebbero più potuto prestare servizio militare in potenze straniere), poi dovette affrontare la ben più grave invasione garibaldina e sarda e la delicata trasformazione costituzionale del suo regno. Travolto dagli eventi non riuscì a rompere l'isolamento politico del regno e a impedirne la dissoluzione, egli tuttavia si impegnò a riconcedere la Costituzione (cosa che fece con l'ausilio del Filangieri nei tragici giorni della rivoluzione siciliana) e alcune fonti storiche affermano che fosse sua volontà riprendere il percorso "riformista" interrotto nel 1849. Sotto il regno di Francesco Il in ogni caso ci fu un drastico cambio di rotta rispetto al passato nella politica e nelle istituzioni borboniche: la vecchia classe dirigente ferdinandea e reazionaria venne completamente messa da parte ed isolata, essa fu sostituita ovunque da personaggi di fede liberale, costituzionale e democratica. Questo brusco cambio di regime fu uno dei principali motivi del grande indebolimento del Regno delle Due Sicilie nei convulsi giorni dellinvasione: le nuove istituzioni governative si ritrovarono in una situazione che richiedeva una risolutezza che mancava completamente in quel delicato momento di transizione. Il Regno infatti sopravvisse fino al 1861, quando, dopo la conquista della massima parte del suo territorio ad opera di Giuseppe Garibaldi, con la "Spedizione dei Mille", iniziativa capace da un lato di raccogliere le volontà rivoluzionarie dei democratici del Partito d'Azione, dall'altro di agire con un tacito e parziale, ma reale, appoggio dei Savoia, le ultime fortezze borboniche (Gaeta, Messina e Civitella del Tronto) si arresero agli assedianti piemontesi.

L'impresa di Garibaldi stupì i contemporanei per lardimento dei volontari, la capacità di garantirne guida, strategia e disciplina da parte di Garibaldi e dei suoi ufficiali, per la rapidità con cui i Mille riuscirono a conquistare il regno, nonostante l'enorme disparità delle forze in campo. Dopo l'occupazione della Sicilia, nel regno avvennero insurrezioni guidate dai numerosi liberali di nuova e vecchia data (coordinati da Silvio Spaventa) che, non soddisfatti dai nuovi ordinamenti costituzionali concessi dal governo borbonico, si schierarono decisamente a favore dell'unità d'italia. Il movimento liberale e unitario nelle Due Sicilie pescava a piene mani nella borghesia meridionale, l'apporto di questa classe sociale (che si ritiene comunemente, a torto, estranea al sud borbonico) fu importantissimo in quei frangenti.
La prima rivolta si ebbe a Potenza, il 18 agosto, in cui la provincia di Basilicata si proclamò annessa ai Regno d'italia; seguita il 21 agosto dalla Terra di Bari con l'insurrezione di Altamura. Le armate borboniche (80.000 unità) sulle prime non riuscirono ad organizzare un'efficace resistenza, sebbene in ciò ebbero parte anche numerosi episodi documentati di insubordinazione e di corruzione degli stessi alti ufficiali del Regno, che erano per gran parte ex carbonari ed ex murattiani richiamati in servizio da Ferdinando ll per le doti militari dimostrate nel decennio napoleonico, anche se, politicamente, molti di loro non si potevano dire sostenitori della causa borbonica. Il giovane ed inesperto Francesco ll, ricevendo a Napoli notizie contrastanti, non riuscì a contenere la fallimentare conduzione delle operazioni in Sicilia del generale Lanza, il quale non fece niente per avvalersi della sua netta superiorità in uomini e mezzi (disponeva in Sicilia di circa 24.000 uomini), provocando profondi malumori nelle stesse truppe reali.In particolare si ricorda la controversa decisione del generale Landi (vecchio partecipante dei moti del 1820) a Calatafimi di far ritirare i Cacciatori napoletani proprio nel momento in cui i Mille stavano per essere ridotti alla disfatta totale. L'esasperazione dei soldati del Real Esercito raggiunse il culmine in Calabria: il generale Briganti (già fautore del bombardamento di Palermo nei giorni dell'insurrezione), dopo aver dato alle truppe l'ennesimo ordine di ritirarsi senza combattere di fronte ai garibaldini, fù fucilato dai suoi stessi uomini che, credendolo un traditore, non telleravano più che il Briganti si rifiutasse di attaccare un nemico tanto più debole aprendogli la strada per Napoli.
Decisivo fu anche il ruolo svolto dagli alti ufficiali dell'Armata di Mare che sostanzialmente si rifiutarono di affondare le navi garibaldine nel loro passaggio dalla Sicilia alla Calabria e che, successivamente, consegnarono gran parte delle proprie navi deliberatamente alla Marina Sabauda.
Solo nella parte conclusiva della campagna, con la battaglia del Volturno, il regno ritrovò la dignità di un'ultima resistenza, con il re Francesco ll al fronte con i soldati. Le Truppe Reali e lo stesso generale in capo Giosuè Ritucci si batterono valorosamente nonostante gli errori strategici commessi dallo Stato Maggiore che decretarono la decisiva sconfitta. La volontà di non arrendersi fu dimostrata anche dalla fortezza assediata di Gaeta, dove si era rifugiata la famiglia reale, nella quale ciò che rimaneva dell'esercito napoletano si trovò a fronteggiare in un logorante assedio le armate del regno di Sardegna, giunte nel frattempo ad afflancare le armate garibaldine, superiori per numero e armamenti. Circondata, Gaeta fu sottoposta ad un blocco navale e pesantemente bombardata dal mare e da terra, sino alla resa (Assedio di Gaeta).
Formalmente, le Due Sicilie furono annesse al Regno di Sardegna dopo l'esito dei plebisciti d'annessione che, come in altre parti d'Italia, non furono rappresentativi dell'effettiva volontà delle popolazioni locali, in gran parte escluse dal voto. Votarono quindi solo i ceti possidenti in condizioni in cui era difficile parlare di libertà e segretezza del voto.
Nella capitale, ad esempio, si ebbero seggi presieduti da bersaglieri, carabinieri e garibaldini. Nel resto delle province ci furono intimidazioni e non mancarono manifestazioni di cambio di opinione e schieramento da parte dei nobili e dei possidenti.
Sul campo, il Regno Delle Due Sicilie cessò di esistere il 20 marzo 1861, giorno della resa della Fortezza di Civitella del Tronto, ultima roccaforte borbonica. La fine del regno erede dell'antica monarchia fondata da Ruggiero il normanno nel 1130 resta un momento importante nella storia d'italia, ma le forme che lo determinarono e soprattutto le scelte della monarchia, e dei governi della nuova Italia furono ben lontane dall'assicurare la realizzazione di quegli ideali di unità della patria e di eguaglianza dei cittadini adombrati dall'idealismo di Giuseppe Mazzini e della generazione protagonista delle lotte risorgimentaii.

Economia

Patrimonio e finanza

La legge dei 20 aprile 1818 fissò l'unità monetaria del Regno nei ducato d'argento dei peso di grammi 22,943.
Al momento dell'introduzione della bra, fu ritirata una prodigiosa quantità d'argento giunta nei Regno in seguito alla grande crescita delle esportazioni delle Due Sicilie avvenuta negli anni '50 dell'800. Francesco Saverio Nitti stabilì che, alla nascita dell'italia unita, il regno borbonico era lo stato che portava minori debiti e più grande ricchezza pubblica sotto tutte le forme. Tuttavia, Nitti riteneva che tale ricchezza pubblica fosse dovuta ad un sistema economico statico e con un'esigua spesa pubblica, in particolare a livello infrastrutturale. L'economista lucano, comunque, sostenne che tale riserva patrimoniale di enormi proporzioni avrebbe potuto essere un'occasione di riscatto per il Sud al momento dell'unificazione nazionale. Su posizioni simili l'altro meridionalista Giustino Fortunato, fu dell'opinione che, non solo la grande abbondanza di liquidi, ma anche l'inconsistente debito pubblico e la bassa pressione fiscale fossero dovute ad una fin troppo contenuta spesa pubblica. In particolare, il Fortunato sostenne che l'abbondanza di monete in metallo prezioso fosse solo un effetto indiretto della scoperta di nuovi giacimenti auriferi in California ed in Australia. Taie evento comportò un incremento della produzione d'oro; questo metallo, in gran parte riversato in Francia, fece si che nello stato transalpino l'argento divenisse moneta sussidiaria, impiegata per le importazioni dall'estero (soprattutto dalle Due Sicilie).
Tale tesi, tuttavia, venne contestata da altri economisti, tra questi Carlo Rodano; costui, assai critico sulle interpretazioni del Fortunato in merito all'abbondanza di moneta in metallo prezioso, spiega che, nella seconda metà del XIX secolo, il governo delle Due Sicilie consentì l'esportazione dei grani e di altri prodotti alimentari, fino ad allora vietata, e diminuì il dazio sull'olio. La conseguenza fu un incremento delle esportazioni ed un contestuale incremento dell'ingresso d'argento nei territorio dei regno. ln ogni caso le finanze del Regno erano gestite col più assoluto rigore: questo atteggiamento contribuì a mantenere in ottimo stato la situazione finanziaria delle Due Sicilie fino alla fine del Regno.
Gli istituti di credito del Reame erano rappresentati tino al 1808 dagli 8 Banchi pubblici operanti nella città di Napoli fin dal XVI secolo (es. Banco di San Giacomo). i depositi bancari erano tradizionalmente attestati da "fedi di credito" le quali erano a tutti gli effetti un titolo rappresentativo dei deposito, liberamente trasferibile e girabile come surrogato della moneta: in un'economia che non contemplava l'uso della moneta cartacea, per effettuare un pagamento occorreva la consegna (o la spedizione) di moneta metallica, operazione spesso molto difficoltosa. La fede di credito, più facile del denaro da maneggiare e spedire, e provvista di indubbie garanzie di sicurezza fornite dai banchi di emissione, divenne ben presto un valido sostituto dei denaro contante apprezzato e diffuso in tutto il territorio del Reame e all'estero.
Nel 1806 i Banchi napoletani furono coinvolti nella politica innovatrice che Giuseppe Bonaparte impresse al Regno di Napoli, cercando di modellarli sui sistema francese.
Il Banco di San Giacomo fu quindi trasformato nel 'Banco di Corte" al servizio dello stato, tutti gli altri banchi furono riuniti in un unico "Banco dei Privati", al servizio dei privati.
Nel 1808 Murat, divenuto re di Napoli, volle unificare i Banchi precedenti per dare vita ad un nuovo istituto sui modello della Banca di Francia: il Banco delle Due Sicilie. L'innovazione maggiore era quella di costituire un capitale azionario, chiamando a partecipare alle sorti dellistituto gli enti pubblici ed il ceto dei proprietari e dei risparmiatori.
La restaurazione borbonica nel 1815 non intaccò le disposizioni emanate durante il decennio francese. Il Banco delle Due Sicilie si componeva di due sezioni separate: la Cassa di Corte, per ¡I servizio della tesoreria generale dei Regno (alle dipendenze del Ministero delle Finanze) e la Cassa dei Privati. NeI 1816 fu creata anche una Cassa di Sconto, a favore dei commercio e dell'industria. Solo nel 1858 si ebbe l'apertura di una Cassa di Corte a Bari, alla quale fu subito annessa una sezione della Cassa di Sconto. Negli ultimi anni di vita del Reame tra i maggiori clienti dei banco vi erano, oltre ai nobili ed agli enti pubblici, molti industriali e vecchie e giovani compagnie e società commerciali, fiorite nel Regno specie dopo il 1830.
Dopo l'unità d'italia, nei 1862, venne introdotto definitivamente il corso legale della Lira (moneta dei Regno di Sardegna), ben presto sostituito dal corso forzoso della moneta (1866). Quest'ultimo provvedimento venne preso per ovviare alle drammatiche conseguenze che la gran mole di debito pubblico, accumulato dal Regno di Sardegna in quegli anni, avrebbe avuto sul valore della Lira.

Agricoltura, allevamento e pesca: condizioni economiche e sociali

Nel regno borbonico l'agricoltura costituiva il settore predominante. Le condizioni climatiche delle Due Sicilie favorivano la produzione di grano,  avena, patate, legumi e olio. Importanti erano anche le coltivazioni di agrumi e di molte altre piante idonee al clima mediterraneo, quali l'ulivo, ecc. Zone molto sfruttate per la coltivazione di alberi da frutto erano ad esempio le campagne intorno al Vesuvio. L'allevamento era prevalentemente ovino (lana), equino e suino.

La pesca era un'attività tradizionalmente diffusa su tutte le coste del Regno. Essa assunse carattere industriale soprattutto grazie all'opera di Vincenzo Florio, che in Sicilia fu molto attivo anche in questo campo, costruendo tonnare e stabilimenti per la lavorazione e la conservazione del pescato.

L'agricoltura delle Due Sicilie aveva i suoi punti forti nelle pianure campane e pugliesi.
Nelle fertili pianure campane venivano applicate colture spesso di carattere intensivo (es. produzioni per l'industria come la canapa, il lino ed il gi). Le pianure e le colline rocciose delle Puglie, invece, erano suoli adatti alla produzione di oli e grani di qualità che venivano efficacemente venduti alla Borsa di Napoli su tutti i principali mercati europei. i vini, specialmente quelli prodotti in Sicilia, alimentavano un fiorente commercio con il Regno Unito e le Americhe.
Per ampliare la superficie agricola furono intraprese opere di bonifica: tra le più importanti si ricorda la bonifica dei piano dei Fucino. Analoghi provvedimenti vennero presi per contrastare i problemi legati al dissesto idrogeologico, come per esempio la costruzione di canali artificiali, importanti erano anche le colonie agricole nate per volontà reale: la più illustre era la Reale tenuta di Carditello che serviva da centro sperimentale per colture e produzioni innovative.
Specialmente in Campania ed in Puglia le riforme introdotte a partire dal 1806 (principalmente [abolizione dei feudalesimo), il successivo ammodernamento della cosa pubblica ed il potenziamento delle strutture economiche voluto da Ferdinando ll, diedero vita ad un ceto agrario borghese destinato ben presto a sostituire gran parte dei vecchi proprietari terrieri nobili. Infatti buona parte dei nobili dei Regno erano soliti risiedere stabilmente a Napoli disinteressandosi delle proprietà rurali, perciò si dimostravano disposti a disfarsi delle loro estese terre affittandole o vendendole ai notabili di provincia, i quali erano in grado di acquistarle e gestirle proficuamente. Parte di questo ceto borghese che si formò nella prima metà dell'800 divenne ben presto il cardine dei nuovi movimenti liberali: la borghesia meridionale, forte delle posizioni economiche raggiunte, pretendeva riforme e posti di potere nel governo del Regno. I desideri della borghesia però dovevano scontrarsi con la rigida politica assolutistica di Ferdinando Il. In questo modo il ceto medio nato grazie alle politiche economiche borboniche divenne, in seguito alle mancate riforme del 1848, la classe sociale più ostile alla dinastia, trasformandosi nella spina dorsale dei movimenti costituzionali ed unitari protagonisti della dissoluzione del Reame nel 1860.
L'abolizione del feudalesimo tu il punto d'arrivo di un percorso iniziato già dai tempi di Ferdinando I, il quale, incalzato dagli intellettuali del Regno, per primo iniziò ad adottare una politica volta a fronteggiare il latifondismo, principale ostacolo al progresso agricolo del meridione rurale. Il sovrano elaborò nel 1792 una legge sulla riforma demaniale (De Administratione Universitatum), che prevedeva la riduzione del latifondo creando un ceto di piccoli e medi possidenti, che avrebbe trasformato i contadini salariati in piccoli coltivatori diretti. Tuttavia il provvedimento non fu gradito nè dai baroni, che avrebbero perso gran parte dei propri possedimenti, nè dalla borghesia provinciale, che non tollerava di essere scavalcata dai contadini nella spartizione dei latifondi. Con l'esilio di Ferdinando I e la nascita della Repubblica partenopea la prammatica del 1792 venne applicata dal governo giacobino per accattivarsi le simpatie dei contadini delle regioni interne. Tuttavia, in seguito della caduta della Repubblica napoletana ed alla riconquista sanfedista del Regno, il ceto medio e la nobiltà ritornarono in possesso delle terre affidate al popolo nel 1799. Con la prima restaurazione la questione demaniale ritornò ad essere regolata dalla prarnmatica del 1792 che divenne poi la base della riforma napoleonica sull'eversione della feudalità. L'eversione della feudalità, però, secondo Tommaso Pedio, nonostante la grande importanza avuta nell'imprimere una svolta in senso moderno nell'amministrazione dello Stato e nel consolidamento della proprietà borghese, rese in molti casi più precarie le condizioni economiche dei contadini nelle aree rurali del Reame (condizioni già misere se si considera che le uniche proprietà di questi contadini erano generalmente la casa di famiglia e minuscoli appezzamenti di terreno). Infatti, nel prowedimento adottato dal governo di Giuseppe Bonaparte per debellare il feudalesimo, le quote di terreno assegnate ai braccianti non tenevano conto della composizione del nucleo familiare, costringendo molti di questi ad indebitarsi con ¡ possidenti ricchi per comprare altro terreno.
Con la seconda restaurazione ¡I governo borbonico adottò la legislazione entrata in vigore nel decennio napoleonico, e così gran parte dei problemi legati alla compravendita di terreni nelle province rurali, nonostante l'abolizione del feudo, rimasero irrisolti, tanto da sfociare in rivolta in seguito agli avvenimenti della questione demaniale si aggravò ulteriormente dopo l'unità d'italia, in quanto il nuovo governo sabaudo non solo si rifiutò di risolvere i problemi legati alla spartizione dei vecchi latifondi ma concesse anche alla borghesia rurale del sud, in cambio del suo fondamentale sostegno politico, di occupare oltre alle vecchie proprietà anche le terre demaniali su cui si basava il sostentamento del ceto contadino più povero.
Nelle aree meno fertili e più periferiche del Regno (come ad esempio nell'interno della Sicilia ed in alcune zone montuose dell'entroterra peninsulare) l'isolamento contribuiva alla persistenza di alcuni gravi lasciti del feudalesimo (abolito definitivamente nel 1806 nei domini continentali e nel 1813 in Sicilia), che influivano negativamente sulle condizioni economiche dei braccianti agricoli locali. Questi disagi, causati in primis dalla difficoltà nello spartire i terreni dei vecchi latifondisti nobili di provincia, ancora legati alla rendita fondiaria, tuttavia erano compensati da una relativamente bassa pressione fiscale, dal modesto costo della vita e da una libertà pressoché totale di vendere i prodotti agricoli e dell'artigianato agrario sul mercato (fattori questi che alimentavano un'economia rurale che rendeva tutto sommato sopportabile e stabile anche la situazione economica dei contadini più poveri delle aree interne dei Mezzogiorno). È importante ricordare questo in quanto, dopo l'unità, con il considerevole aumento delle imposte e la poco oculata regolamentazione delle tariffe doganali dei prodotti agricoli, questo status quo economico nell'entroterra meridionale venne a mancare.
I prowedimenti presi dal governo sabaudo, oltre a rendere più precaria la situazione economica dei contadini, contribuirono grandemente ad alimentare negli anni successivi all'unità d'Italia (insieme a molti altri fattori, quali la militarizzazione delle province e l'ambiguo ruolo svolto dai proprietari terrieri locali in quella fase di transizione) un fortissimo dissenso nei confronti del nuovo stato tra le classi meno abbienti della provincia meridionale. Dissenso che, unito spesso a motivazioni ideologiche, darà origine al cosiddetto "brigantaggio" prima e alla grande emigrazione poi.

Industria e imprenditoria

Il settore industriale, anche se meno rilevante dell'agricoltura, costituiva un campo in via di sviluppo e venne sostenuto dal governo borbonico attraverso politiche protezionistiche e incoraggiando l'afflusso di capitali stranieri nel Regno. La dinastia borbonica, dopo la seconda restaurazione, avviò, con Ferdinando I, una politica volta all'indipendenza economica del reame. Si inaugurò, dunque, una politica industriale, che, nonostante i suoi limiti, portò all'origine dei primi opifici moderni della penisola ed apportò notevoli mutamenti nel tessuto sociale del Mezzogiorno.
Napoli era, in campo industriale, la città più significativa del Regno e già negli anni '30 si era deciso di incanalare la sua espansione industriale verso la periferia orientale e lungo la costa vesuviana. Tra le attività più importanti dell'area urbana napoletana si ricordano la produzione di stoviglie, i mobilitici, le fabbriche di cristalli, di strumenti musicali, le distillerie e tutte le altre industrie alimentari. La siderurgia e la metalmeccanica rappresentavano il ramo industriale più consistente. Rilevanti infatti furono i cantieri navali di Napoli e le officine dei Granili, facenti parte della grande industria statale napoletana.
A causa di un sistema prettamente accentrato, Napoli era, quindi, sede di una maggior aggregazione industriale: ciò comportò nei primi anni di questo processo di industrializzazione massicci spostamenti di lavoratori, che, provenienti dalle altre province del regno, aspiravano a migliori condizioni di vita; non sempre, però, l'occupazione era garantita a tutti. Con l'evoluzione della società indotta dalla crescita industriale tuttavia il fenomeno della migrazione interna andò sempre più scemando, fino a scomparire quasi del tutto negli ultimi decenni di vita del Regno. Infatti al di fuori dei grandi centri economici come Napoli, Palermo e Bari, importanti realtà industriali sorsero gradualmente in molte altre province del Reame.
In Calabria ulteriore era presente la Fonderia Ferdinandea, in cui veniva prodotta ghisa in elevate quantità, dove veniva lavorato e trasformato il ferro estratto dalle numerose miniere della zona, vi furono costruite le rotaie per la prima ferrovia italiana, la "Napoli-Portici", e tutte le rotaie della vecchia linea ferroviaria che dal sud della penisola raggiungeva Bologna.
In Sicilia, nelle zone di Catania e Agrigento, era presente l'industria mineraria basata sulla lavorazione dello zolfo siciliano, a quel tempo fondamentale per la produzione di poIvere da sparo,che soddisfaceva 4/5 della richiesta mondiale.

La comunità svizzera delle Due Sicilie

La comunità svizzera nel Regno delle Due Sicilie fu tra le più cospicue comunità estere presenti nel territorio dei reame.
I primi flussi migratori risalgono alla seconda metà del XVIII secolo, quando soldati di ventura elvetici si spostarono nelle Due Sicilie per essere assoldati dai Borbone. Allo stesso tempo, però, un'altra tipologia di migranti discendeva la penisola. Si trattava di famiglie svizzere che andavano ad occupare, sia in qualità di imprenditori, sia in qualità di lavoratori, interi comparti economici del regno.
Ad attirare il grosso degli investitori e della forza lavoro, furono il secondario ed il terziario: in particolare l'industria tessile, 'na anche l'industria alberghiera, il comparto bancario ed il commercio. A comporre la comunità elvetica nelle Due Sicilie, non vi furono solo imprenditori ed operai, ma anche una schiera di uomini di cultura, composta da intellettuali, artisti e scrittori che fecero di Napoli la fonte di ispirazione di alcune delle loro opere.
Nel salernitano e nella valle dei Sarno esisteva un vero e proprio polo industriale del tessile, gestito in prevalenza da imprenditori facenti parte della cospicua comunità svizzera campana: grazie a questa presenza tessile Salerno venne soprannominata "Manchester delle Due Sicilie".
In Terra di Bari e nelle altre province pugliesi, nella prima metà dell'800, si ebbe un processo di industrializzazione che coinvolse i numerosi centri urbani della Puglia, spesso anche in maniera notevole e spesso grazie all'apporto, non solo di capitali, ma anche di competenze straniere. Inoltre la presenza di aziende fondate da imprenditori stranieri ebbe ricadute positive sia in termini di trasferimento di competenze e conoscenze all'imprenditoria locale, sia in termini di crescita economica, favorendo l'iniziativa privata autoctona.
Dopo il 1824, molte piccole fabbriche manifatturiere si trasformarono in veri e propri complessi industriali che resero alcune zone del Regno delle Due Sicilie all'avanguardia degli altri stati pre unitari nella fase iniziale dell'industrializzazione della penisola.
Tommaso Pedio riporta che, specialmente nel settore privato, prima del 1848 i salari degli operai nel Regno erano bassi non vi erano norme a tutela dei lavoratori e nessuna sostanziale garanzia: l'operaio non aveva il diritto di protestare per ottenere migliori condizioni di lavoro e Io sciopero poteva essere punito dalla legislazione borbonica come "atto illecito tendente al disturbo dell'ordine pubblico": ciò contribuì a creare negli anni successivi al '48 un certo fermento tra la classe operaia del Reame. Pedio sottolineò inoltre che, di fronte a tale situazione, il ceto borghese (i cosiddetti galant uomini) , per non ledere gli interessi di chi deteneva il potere, non si prestò in favore degli operai. Tuttavia intorno al 1848 si ebbe la nascita di alcuni nuclei socialisti tra gli operai di insediamenti industriali napoletani e salernitani ed in alcuni circoli di intellettuali della capitale.
Vi è anche un dossier degli economisti Vittorio Daniele (Università di Catanzaro) e Paolo Malanima che, ricostruendo il Prodotto pro-capite delle regioni italiane sulla base dei dati del 1891 e successivi, concludono che al 1860 non esistesse alcun reale divario in termini di reddito individuale medio tra nord e sud, divario che incomincia invece a crearsi nell'ultimo decennio dell'BOO. Gli autori in conclusione affermano che lattuale povertà meridionale non può essere spiegata ricorrendo a cause pre-unitarie, in quanto la differenza si manifesta a partire dall'ultimo ventennio del 1800 sotto forma di minore crescita del Sud.

Infrastrutture e trasporti

Sul finire del XVIII secolo il reame doveva far fronte alla scarsità di vie di comunicazione terrestri, in particolar modo nelle zone più continentali. Tale situazione, infatti, rendeva difficili i trasporti e, quindi, gli scambi commerciali all'interno dello stato delle Due Sicilie. Ferdinando II si interessò in modo particolare della costruzione di nuove opere pubbliche e di infrastrutture, similmente a quanto fece il suo bisnonno Carlo. Nel frattempo i governi borbonici avevano provveduto a creare una considerevole flotta mercantile, in grado di collegare il Regno alle principali capitali mondiali.

Ferrovie

Il giovane Ferdinando Il, attratto dalle novità tecniche, intui per primo in Italia le potenzialità di un nuovo mezzo di trasporto che dal 1829 si muoveva velocemente nelle campagne inglesi: la Iocomotiva. Così Ferdinando Il dopo aver introdotto per primo in Italia l'illuminazione a gas, costruito ponti, aperto strade e iniziata la bonifica dei terreni paludosi presso Paestum e Brindisi, rivolse la sua attenzione alle strade di ferro e rispose ufficialmente alle richieste dell'ingegnere francese Armando Bayard dandogli le concessioni per la costruzione di una prima linea ferroviaria tra Napoli e portici. Per indennizzare il Bayard dei costi della costruzione, il governo borbonico gli concesse per 80 anni il diritto di riscuotere le somme derivanti dall'utilizzazione della strada ferrata, allo scadere dei quali sarebbe subentrato lo Stato. II 3 ottobre 1839 ci fu l'inaugurazione della nuova "strada di ferro" alla presenza del re e dello stesso ingegner Bayard. Così nacque la prima linea ferroviaria italiana, sulla quale in un solo mese viaggiarono circa 60.000 persone.
Poi si ritenne opportuno raggiungere salerno, partendo da Nocera. Questo progetto tuttavia era molto ardito in quanto prevedeva il superamento di pendenze accentuate e la rimozione di ostacoli di ambiente montano. Il re diede la sua concessione a Bayard ma i lavori rimasero fermi molti anni, e al momento dell'unificazione, la linea era arrivata fino ad Eboli.
NeI 1857, Ferdinando Il decise di costruire per conto dello Stato la strada ferrata delle Puglie, facendo immediatamente cominciare i lavori tra Sarno e Avellino e tra Foggia e Barletta. Questa notevole infrastruttura partiva da Napoli e giungeva sino a Bari. Da Bari si estendeva fino a Conversano,Monopoli, Ostuni e infine Brindisi.
Questa linea doveva essere interamente costruita con materiali e mezzi di provenienza nazionale.
L'improwisa unificazione italiana fece si che nel Regno delle Due Sicilie le strade ferrate rimanessero prerogativa della sola Campania. La realizzazione di queste costruzioni, oltre ad essere costosa, era anche difficoltosa in quanto le ferrovie meridionali dovevano giocoforza estendersi per grandi distanze in territori montuosi, o comunque geologicamente instabili, prima di raggiungere le città della sponda adriatica e ionica.

Strade rotabili

Al momento dell'insediamento della dinastia borbonica il giovane re Carlo intraprese una politica volta alla completa ristrutturazione delle opere pubbliche trascurate nel periodo vicereale. Tra queste si diede rilevanza all'apertura di nuove strade, di cui le parti continentali del regno avevano grande bisogno. Nel '700 in particolare vennero costruite nuove strade che collegavano la Campania (la regione da sempre più ricca di infrastrutture) con il confine pontificio, le Puglie, la Basilicata, gli Abruzzi e il Molise.
Nell'800 Ferdinando I e Francesco I si impegnarono nella costruzione di nuovi collegamenti per tutti i capoluoghi delle province del Regno, costruendo diramazioni che dalle strade principali si dirigevano verso le città pnncipalï, in modo da collegarle con la capitale, i mari ed i confini terrestri. Furono anche rimodernate le 3 grandi strade "Regie" che univano la capitale con gli Abruzzi, le Puglie e le Calabrie e dotate di un servizio postale quotidiano che, grazie all'assenza di fermate durante le corse e ai frequenti cambi di cavalli presso le stazioni di posta, permetteva di raggiungere in poco tempo la meta prestabilita. È opinione di molti storici che la costruzione di nuove infrastrutture abbia subito una battuta d'arresto dopo i fatti del 1848, in quanto il governo di Ferdinando Il giudicava implicitamente pericolosi i nuovi collegamenti per la stabilità politica dei regno, specialmente per quanto riguardava la Sicilia. Al momento dell'unità esisteva un sistema abbastanza efficiente ed organico di strade regie e provinciali che collegavano i capoluoghi ai centri più rilevanti ed alle aree strategiche dei Regno. Tuttavia ben 1.321 dei 1.848 comuni del Reame non erano ancora collegati al sistema viario statale, per lo più paesini situati nelle aree montuose e rurali.

Marina mercantile e commercio internazionale

Il Regno era dotato di un'importante marina mercantile che, sfruttando la posizione strategica delle Due Sicilie nel Mediterraneo, rendeva il temporaneo gap ferroviario un fattore di scarsa rilevanza nelle attività economiche del paese. Sia il commercio che industria, infatti, concentrati principalmente nelle città costiere, si servivano dei trasporti marittimi forniti dalle numerose compagnie di navigazione e dallo stesso Stato che, oltre a solcare il Mediterraneo, compivano anche rotte oceaniche. Ad esempio, la società Sicula Transatlantica, dagli armatori palermitani De Pace, si dotò del Sicilia, un piroscafo a vapore di costruzione scozzese, che collego Palermo a New York in 26 giorni, divenendo la prima nave a vapore italiana a giungere nelle Americhe.
Nel 1734, anno in cui Carlo di Borbone assunse il titolo dire delle Due Sicilie, le marine mercantili napoletana e siciliana, dopo i due secoli di vicereami spagnoli, versavano in pessime condizioni. I porti minori erano chiusi al traffico e le esportazioni ridotte al minimo. Per far fronte a questa situazione, il re Carlo fece emanare una serie di norme e disposizioni atte a rendere finalmente efficace la navigazione mercantile nella sua nazione. Furono stabiliti regolamenti moderni per i marinai ed i padroni e fu incrementata la cantieristica e l'istruzione professionale nelle aree di più lunga tradizione marinara. Il nuovo corso della marineria mercantile napoletana e siciliana fu determinato inoltre dal potenziamento della Marina Militare, che rese possibile debellare la pirateria araba e balcanica, ed inoltre dall'eliminazione dei privilegi doganali per i legni inglesi, francesi, spagnoli e olandesi che procuravano problemi all'erario nazionale. A metà 700 i legni delle Due Sicilie ripresero a commerciare con ï principali porti del Mediterraneo, con occasionali viaggi oltre le Colonne d'Ercole.
Con l'avvento al trono di Ferdinando IV sul trono di Napoli si consolidarono le norme introdotte sotto il regno di Carlo di Borbone, furono potenziate le strutture al servizio della manneria mercantile e furono sottoscritti nuovi trattati di commercio, che permettevano alle navi delle Due Sicilie di poter transitare per i Dardanelli ed il Bosforo per raggiungere i porti dei Mar Nero. In quegli anni inoltre furono potenziati e consolidati i rapporti commerciali con tutti gli stati dei Mediterraneo e con le principali potenze.
Durante il decennio francese le strutture economiche e sociali del regno si rafforzarono, si consolidò la borghesia, erede dei baronaggio feudale ormai abolito, e soprattutto si formò una nuova coscienza politica. Tornato sul trono Ferdinando I di Borbone si conservarono le normative di epoca napoleonica, si diedero premi ai legni che esportavano nei mari più lontani, nacquero le prime compagnie di assicurazione e si incrementarono le costruzioni navali nazionali. Negli anni'lO dell'800 la bianca bandiera borbonica, la prima in assoluto di uno stato italiano, cominciò a sventolare regolarmente anche nei porti americani del nord e dei sud, nelle Antille e nelle Indie orientali. Nel 1817 il principe di Ottajano Luigi de' Medici, ministro delle finanze, decise che il Reame avrebbe dovuto dotarsi di navi a vapore per la navigazione mercantile, le quali all'epoca si ritenevano inadatte all'utilizzo in mare aperto. Fu proprio nel Regno delle Due Sicilie che probabilmente si decise per la prima volta di utilizzare navi a vapore per la navigazione marittima. Così si commissionò la prima nave a vapore del Mediterraneo: il Ferdinando I.
Con il regno di Francesco I si ebbe un ulteriore consolidamento della flotta mercantile delle Due Sicilie: furono aumentati i vantaggi per chi esportava in America, fu incrementata la costruzione di navi a vapore e furono contratti nuovi accordi commerciali. In particolare si ricorda l'accordo con la Sublime Porta che permise il libero transito delle navi di bandiera borbonica nel Bosforo.
Morto Francesco I, salì sul trono delle Due Sicilie il figlio Ferdinando II, il sovrano che diede l'impulso maggiore al potenziamento della marina mercantile nel Reame. Sotto il suo regno si registrarono molti primati: la prima nave da crociera a vapore del Mediterraneo, il primo transatlantico a vapore tra Napoli e New York, il primo moderno sistema di fari in Italia. Inoltre furono ampliati ed ammodernati quasi tutti i porti delle Due Sicilie, tra cui quello di Napoli, furono costruiti nuovi porti ed istituite nuove scuole nautiche ed ospedali. Nel 1830 Ignazio Tedesco concepì un nuovo metodo di attraversare l'Atlantico che consisteva nel navigare fino al Tropico del Cancro, accorciando in questo modo notevolmente il tempo per raggiungere le coste americane. Aumentarono anche i traffici per il Mar Nero, l'America latina, la Scandinavia, si consolidarono le esportazioni nel Regno Unito. il capitano Vincenzo di Bartolo, al comando dell'EIisa, fu il primo italiano a raggiungere con una nave di uno stato preunitario le Indie Orientali e l'Oceania. L'impresa del di Bartolo aprì la via ai commerci per le Indie Orientali. in quegli anni, si ebbe un continuo e costante accrescimento delle esportazioni e delle importazioni e, di conseguenza, una costante crescita dell'economia del Regno. Nel regno si eliminarono o abbassarono molti dazi protezionistici: su tessuti, lavori in seta e in metallo, prodotti chimici e medicinali; di esportazione sull'olio d'oliva.
Le rivolte del 1848 segnarono una battuta d'arresto per i traffici del Regno, tuttavia dopo qualche anno la marineria delle Due Sicilie riprese la sua crescita.
Nel 1852 i bastimenti napoletani iniziarono a commerciare anche con Calcutta, e gli eventi della successiva Guerra di Crimea furono sfruttati dalle compagnie di navigazione regnicole, che aumentarono notevolmente i propri capitali mettendo a disposizione le proprie flotte per i trasporti militari. Nel corso degli anni '50 Ia consistenza della flotta mercantile delle Due Sicilie raggiunse il suo apice, nei cantieri della penisola sorrentina furono costruiti i primi bastimenti, i quali conquistarono un altro primato per uno stato italiano preunitario. Si ebbe poi un susseguirsi di trattati commerciali. Tra iI 1859 ed il 1860, morto Ferdinando Il, furono compiute altre aperture liberiste da Francesco II, che consistevano nel diminuire drasticamente ¡ dazi d'importazione, misure mai applicate poiché seguite dall'annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d'italia con applicazione dei regolamenti del Regno di Sardegna.
NeI 1859 la marina mercantile delle Due Sicilie contava in totale quasi 12.000 imbarcazioni e navi.
Al momento dell'unità d'italia la marina mercantile borbonica superava quella del Regno di Sardegna per stazza delle navi e per investimenti di capitali. Tuttavia negli anni successivi all'unificazione si assistette ad un progressivo smantellamento della flotta meridionale: i nuovi governi italiani puntarono decisamente sulle industrie e sui cantieri del nord, in particolare liguri, sostenendoli con l'intervento politico, con generosi anticipi di capitale e con altre sowenzioni statali. La penuria di investimenti nel Mezzogiorno e la progressiva perdita del potere economico limitarono in quegli anni la trasformazione della flotta mercantile del sud in senso moderno. A questo trend negativo resistettero solo alcuni tra i maggiori armatori napoletani, della penisola Sorrentina ed i Florio in Sicilia. Le altre compagnie di navigazione napoletane scomparvero gradualmente, oppure assunsero una dimensione locale che comportò un loro ridimensionamento.

Cultura

Il Regno delle Due Sicilie ereditava le secolari tradizioni dei regni di Napoli e Sicilia, ed il loro patrimonio culturale.
Vivace era la vita culturale e artistica nelle maggiori città del Reame, numerosi erano i teatri e le istituzioni culturali. A Napoli era situato il Real Teatro di San Carlo, uno dei più grandi e antichi d'Europa, in cui vennero rappresentate memorabili prime di musicisti del calibro di Vincenzo Bellini, Saverio Mercadante, Gaetano Donizetti, Gioacchino Rossini, Giuseppe Verdi, ecc. interpretate dalle più acclamate voci dell'epoca. Nel Regno delle Due Sicilie emerse la figura di Vincenzo Torelli, giornalista ed impresario teatrale, proprietario della rivista Omnibus, noto al tempo per il ruolo che rivestì nella gestione dei teatri napoletani e per le relazioni che intraprese con numerosi attori, compositori e musicisti.

In quegli anni si impose anche la canzone napoletana. Le bellezze del Golfo partenopeo furono di ispirazione in quegli anni a pittori napoletani, come Giacinto Gigante, tra i fondatori della "scuola di Posillipo". Nella formazione artistica svolse un ruolo importante l'Accademia di belle arti di Napoli. La ricchezza di testimonianze archeologiche (il cui esempio più eclatante erano gli Scavi archeologici di Pompei) diede vita ad uno dei musei archeologici più importanti del mondo, il Museo archeologico nazionale di Napoli. Nel regno si formarono esimi intellettuali, come umanisti e diverse personalità culturali del Regno, e Francesco De Sanctis; scienziati del calibro Ferdinando Palasciano, molti dei quali diedero un contributo fondamentale agli avvenimenti del 1848.

Tra le istituzioni scientifiche più importanti si ricordano l'Accademia Pontaniana ed il Reale Istituto d'incoraggiamento di Napoli. L'Università di Napoli, la più grande dei Regno, per quanto dovesse subire la forte concorrenza delle numerose (e spesso prestigiose) accademie private, si distingueva per i suoi meriti scientifici. Di quel periodo si ricorda l'ingegnere Luigi Giura, autore di diverse opere architettoniche, tra le più note il Ponte Real Ferdinando e il Ponte Maria Cristina.

Istruzione

L'istruzione primaria, nonostante fosse disciplinata da norme minuziose, era erogata in maniera ineguale sul territorio, soprattutto nelle zone interne e più rurali del reame. L'istruzione pubblica elementare era, infatti, delegata alle diocesi e, benché esistessero scuole primarie in tutti i comuni della parte continantale del reame, i vescovi non mancarono di segnalare le precarie condizioni del sistema scolastico in alcune regioni (mancanza di infrastrutture e personale, retribuzioni discontinue). Secondo una statistica riportata dallo storico Giovanni Vigo, nel 1818, la Basilicata (una delle aree più rurali del regno) risultò la provincia con il più basso indice di scolarizzazione del regno.

Un aspetto positivo riguardava l'applicazione di criteri meritocratici nel sistema scolastico, ove un'inadeguata preparazione culturale e una scarsa etica professionale, che potessero compromettere il funzionamento dell'istruzione pubblica, portavano alla destituzione di un determinato docente. A partire dal 1Q, si iniziarono ad intravedere lievi miglioramenti: il governo borbonico attuò riforme che permisero l'inserimento di nuovo personale in molte scuole del regno, che fino ad allora erano rimaste sotto organico.

Le scuole superiori pubbliche, invece, distinte in "Reali Collegi' e "Scuole Secondarie", erano situate nei capoluoghi di provincia, nelle città principali e nei centri economicamente più rilevanti; nelle aree urbane più importanti, tuttavia, era predominante l'istruzione privata che poteva contare su un gran numero di istituti. Negli anni '40 del XIX secolo, nel Regno si potevano contare 12 Reali Collegi e 42 Scuole Secondarie, queste ultime erano scuole superiori che a differenza dei Reali Collegi impartivano principalmente insegnamenti di tipo tecnico, pratico e professionale.
A Napoli era situata l'Università della capitale, il cui presidente ricopriva la carica di Ministro della pubblica istruzione.
Dall'Università di Napoli dipendevano inoltre cinque università "secondarie' (chiamate Reali Licei") situate a L'Aquila, Ban, Salerno e Catanzaro (oltre che a Napoli), abilitate anche a rilasciare i titoli di studio per esercitare le professioni liberali (principalmente mediche e giuridiche). È da ricordare a Napoli anche la presenza del "Collegio dei Cinesi" (oggi Università "L'Orientale"), fondato nel 1732 dal missionario Matteo Ripa con l'obiettivo di ampliare i rapporti culturali ed economici con l'estremo oriente.
Le università siciliane erano 3: quella di Palermo, quella di Catania e quella di Messina.

La nascita della questione meridionale

Perduta l'indipendenza, i settori produttivi dell'ex Reame, in particolare quello industriale, entrarono in una profonda crisi. Finché il nuovo Stato non awiò una politica di industrializzazione (1878), le ripercussioni dell'annessione prima e le politiche doganali adottate dal nuovo stato italiano poi, segnarono la tine delle non più "protette" imprese meridionali rispetto alla concorrenza britannica e francese, e, sul mercato interno, rispetto alle nascenti e più protette aziende di quell'area che successivamente verrà definita "Triangolo industriale".
Secondo le ricostruzioni di Nitti, le consistenti ricchezze del regno oltre a contribuire maggiormente alla formazione dell'erario nazionale, furono destinate prevalentemente al risanamento delle finanze di regioni settentrionali come Piemonte e Liguria, compromesse dalla sproporzionata spesa pubblica sostenuta dal Regno di Sardegna in quegli anni, e allo sviluppo delle province del "triangolo industriale", Il debito pubblico piemontese crebbe nel decennio precedente al 1860 del 565%, producendo come effetto un aumento vertiginoso delle tasse (furono introdotte negli stati sardi 23 nuove imposte negli anni 50 dell'800), la vendita dei beni demaniali e la necessità di contrarre grandi prestiti, rimettendo in questo modo le sorti dello stato sabaudo nelle mani di alcuni grandi banchieri (come i Rothschild). La stessa banca nazionale (il Banco delle Due Sicilie) tu poi scissa in Banco di Napoli e Banco di Sicilia.
Recenti ricerche di carattere scientifico riportano che prima dell'Unità non esistessero sostanziali differenze economiche tra sud e nord in termini di prodotto pro capite e industrializzazione e che il divario cominciò a presentarsi negli ultimi anni dell'800, allargandosi da quel momento in poi fino a creare l'attuale dualismo tra centro-nord e Mezzogiorno, all'origine della cosiddetta questione meridionale messa in evidenza proprio in quel periodo da politici e studiosi del sud come Sidney Sonnino,Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti. Nitti, in particolare, non mancò mai di sottolineare l'enorme e continuo drenaggio di ricchezze dal sud verso il nord che awenne dopo il 1860. Secondo Nitti infatti gli ingenti capitali ottenuti dal nuovo stato unitario dopo l'occupazione delle Due Sicilie furono spesi quasi esclusivamente nell'italia settentrionale per finanziare opere e istituzioni pubbliche, scuole e infrastrutture a discapito dei Sud, nonostante quest'ultimo contribuisse in maniera preponderante all'erario nazionale.
L'impoverimento abbattutosi sul meridione nei decenni seguenti all'Unità d'italia fu una delle cause di quella, che alcuni storici considerano una vera e propria guerra civile, che infiammò le campagne meridionali, allora definita "lotta al briciantapciio'. In seguito, la povertà portò alla formazione di un massiccio flusso migratorio, assente in epoca preunitaria. Il declino economico del sud viene sottolineato in quegli anni anche dalle diverse proporzioni del flusso migratorio nelle varie parti del paese: infatti, se nel periodo 1876-1900, su un totale di 5.257.911 espatriati, la gran parte degli emigrati all'estero furono abitanti delle regioni centro-settentrionali, in quello 1900-1915, su un totale di 8.769.785 esuli, la tendenza si invertì ed il primato migratorio passò alle regioni meridionali, con una riduzione degli emigrati settentrionali e una crescita di quelli dal Mezzogiorno: in particolare, su meno di nove milioni di emigrati, quasi tre milioni provenivano da Campania, Calabria e Sicilia.

Lo stesso Giustino Fortunato, benché avesse posizioni molto critiche nei confronti delle politiche borboniche e fosse un fervido fautore dell'unità nazionale, sostenne che il danno maggiore inflitto all'economia del Mezzogiorno dopo l'unità d'italia fu causato dalla politica protezionistica adottata dallo stato italiano nel 1877 e nel 1887, che a sua detta determinò "il fatale sacrificio degl'interessi del sud" e "l'esclusivo patrocinio di quelli del nord", in quanto cristallizzò il monopolio economico del nord sul mercato italiano.


Regno delle Due Sicilie
Il Regno delle Due Sicilie fu uno stato sovrano dell'Europa meridionale esistito tra il 1816 ed il 1861.
Il regno venne istituito dal re Ferdinando di Borbone, allorché, dopo il Congresso di Vienna ed il Trattato di Casalanza, soppresse il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia e la relativa costituzione che li teneva separati.
Al momento dell'istituzione del Regno delle Due Sicilie, la capitale fu fissata in Palermo, ma, l'anno successivo, fu spostata a Napoli; Palermo, però, almeno formalmente, continuò a mantenere dignità di capitale, essendo considerata, appunto, "città capitale" dell'isola di Sicilia.


Denominazione

Fu Papa Clemente IV, incoronando Carlo d'Angiò, a parlare per la prima volta di due Sicilie, una Sicilia ulteriore ed una Sicilia citeriore, includendo, in quest'ultima le Calabrie ed abbandonando il vecchio appellativo di regno delle Puglie (o Porta Roseti us que limitem Regni). A seguito del congresso di Vienna, il sovrano che, prima d'allora, assumeva in sé la corona napoletana (al di qua del faro), come Ferdinando IV,


e quella siciliana (al di là del faro), come Ferdinando lll, riunì in un'unica entità statuale i territori delle Due Sicilie, attraverso la Legge fondamentale dei Regno delle Due Sicilie dell'8 dicembre