La Cucina
Le complesse vicende storiche di questa regione giustificano da un lato le influenze francesi e spagnole delle preparazioni dei piatti che si consumavano alle mense dei ricchi, molto appariscenti, molto scenografici e spesso sostanziosi; ma giustificano altresì la cucina povera, quella riservata al popolo in cui primeggiano ortaggi e latticini, in cui è quasi assente la carne e il pesce è riservato alle feste.
Una regione nella quale i poveri erano veramente poveri e i ricchi conducevano una vita godereccia nei palazzi e castelli dei nobili oltre che, naturalmente, alla corte del Regno, ha avuto nei secoli una cucina divisa per censo senza possibilità di reciproche influenze affidata alla fantasia della povera gente la prima, ai grandi cuochi la seconda.











Unico carattere in comune è la molteplicità dei piatti che in questa terra sono stati elaborati attraverso i secoli rendendo la cucina della Regione Campania particolarmente ricca di piatti frutto di inventiva per quella povera e di grande abbondanza per quella dei ricchi.
Quest'ultima trova spazio nei testi storici scritti in Italia soprattutto nel 1400 e nel Rinascimento. Così Cristoforo di Messisbugo che pur essendo nato probabilmente nelle Fiandre nei primi decenni del XVI secolo è stato attivo come scalco presso la corte degli Estensi; egli ebbe grande fama tanto da meritare di essere creato Conte Palatino a opera di Carlo V (gennaio 1533).
Nella parte della sua Opera dedicata alle ricette troviamo cibi di varia derivazione fra i quali non mancano quelli della cucina napoletana, primo fra tutti i maccheroni. Infatti egli scrive: «A fare dieci piatti di maccheroni alla napoletana». «Piglia libbre otto di fiore di farina, e la mollena (= mollica) d'un pane grosso boffetto, mogliato (= messo a molle, a bagno) in acqua rosata, e uova fresche quattro, e once quattro di zuccaio; e bene impasta ogni cosa insieme, e fa bene la tua pasta, menandola per un pezzo. Poi ne farai spoglie più tosto grossette che sottile, e le tagliarai in liste strette e longhette; e farai che stiano alquanto fatti. Poi li cuocerai in brodo grasso bogliente, e li imbandirai nei piatti o sopra capponi o anadre o altro, con zuccaro e cannella dentro e di sopra. E per li giorni da pesce, li cuocerai nell'acqua senza butiro, o con butiro fresco, se vorrai».
Per quanto riguarda le notizie storiche sui vini di questa zona è preziosa la lettera di Sante Lancerio (vissuto nel XVI secolo) scritta al cardinale Guido Ascanio Sforza intorno alla natura e qualità dei vini.
Fra quelli citati molti provengono dal Napoletano. Così il «Greco di Somma», il «Greco di Posilico (= Posillipo)», il «Greco d'Ischia», il «Greco di Torre» ecc. Interessante quanto scrive del «Vino Sucano»: «Viene a Roma per schiena di muli e per some. Tali vini sono per la maggior parte rossi, et è perfettissimo vino sì per il verno quanto per la state. Sucano è un castelletto distante da Orvieto due miglia, e dopo il vino Monterano non ha pari bevanda per vino rosso. Tali vini sono odoriferi, bellissimi e polputi (= gagliardi, di molta sostanza) più che il Monteranno, ma non hanno tanto odore. A voler conoscere la loro perfezione, vuole essere odorifero, bello e non agrestino. Ci sono delli bianchi molto perfetti per il verno, con una vena di dolce, ma vogliono essere mordenti, non grassi né matrosi. Volendo il rosso per la state, si vuole pigliare crudo, e sia di vigna vecchia, ché la vigna vecchia ha questa proprietà, che se fa il vino amabile lo mantiene e se lo fa asciutto lo mantiene; la giovane fa il contrario. Di questo vino S. S. beveva volentieri, massime quando era in Orvieto. Il capitano Jeronimo Benincasa (= personaggio storico non identificabile; si tratta, probabilmente, di un funzionario di Curia, all'epoca di Paolo III) faceva buona provvisione e lo faceva portare a Roma et in viaggio».
A questi seguono «Il Mangiaguerra» così chiamato perché fortissimo, «Il vino di Salerno», il «Vino Santo di San Severino» e il «Vino Aglianico». Una ricca produzione che testimonia la fertilità di questa terra e la capacità vinicola dei suoi abitanti.
Il Lancerio nel descrivere questi vini ci fornisce anche notizie sulla realtà del Regno di Napoli: così parlando del vino di Fistigno scrive: «È rosso e viene dal Regno di Napoli, da un luogo sopra la montagna di Somma. Tale vino si domanda Fistignano rispetto alla sorte o viticcio dell'uva. In questo luogo sono vigne erborate et uva assai rossa e dolce, e fa il vino maturo e dolce e carico di colore. Ci sono anco degli asciutti e sono ottimi vini. A voler conoscere la loro perfezione vuole essere scarico di colore et abbia polso (= forza), cioè sia gagliardo, né molle (= debole, acquoso) né matroso, e sopra tutto abbia odore. Di tali vini S. S. beveva volentieri e gli faceva onore. Il meglio vino che si faccia è della possessione di Mons. Domenico Terracina, ma raro viene a Roma, perché i Viceré lo vogliono per loro, e certo è buona bevanda».
Negli stessi anni visse Bartolomeo Scappi che pure nella sua Opera si riferisce alla cucina napoletana ad esempio quando fornisce la ricetta «Per fare torta reale di piccioni, da' Napoletani detta pizza di bocca di dama» o «Per fare torta con diverse materie, da' napoletani detta pizza» che però non ha nulla a che vedere con la famosa pizza che nel secolo XX ha avuto tanta fortuna in tutto il mondo. Egli infatti scrive: «Abbisi once sei d'amandole ambrosine monde e quattr'once di pignoli ammogliati mondi e tre once di dattoli freschi privi dell'anime e tre once di fichi freschi, tre once di zibibbo senz'anime, et ogni cosa pestisi nel mortaro, sbruffandole alle volte d'acqua rosa, di modo che venga come pasta; giungasi con esse materie otto rossi d'ova fresche crude, once sei di zuccaio, un'oncia di cannella pista, un'oncia e mezza di mostaccioli napoletani muschiati fatti in polvere, quattro once d'acqua rosa; e fatta che sarà d'ogni cosa in una composizione, abbisi la tortiera onta con uno sfoglio di pasta reale et il tortiglione sfogliato incirca non troppo grosso, e mettasi la composizione in la tortiera, mescolata con quattro once di butiro, facendo che non sia più alta d'un dito, e senza essere coperta facciasi cuocere al forno e servasi calda e fredda a beneplacito. In essa pizza si può mettere d'ogni sorta condite».
Sullo scorcio del Seicento Lo scalco alla moderna del marchigiano Antonio Latini sembra segnare la fine dell'egemonia esercitata dalla letteratura gastronomica italiana e rappresentare, per una oscura consapevolezza dell'Autore, la «summa» di tutta la letteratura precedente, dagli esordi della gastronomia umanistica ai trattati del Messisbugo, del Panunto, dello Scappi, del Cervio, dello Stefani, per non ricordare che i maggiori dell'età rinascimentale. Lo dice la grossa mole del trattato e meglio lo attesta il sommario degli argomenti, nel quale si trovano annoverati «l'arte di ben disporre i conviti», «le regole più scelte di scalcherai», «il modo facile e nobile di trinciare», di fare arrosti, bolliti, stufati, minestre, zuppe, morselletti, brodi, fritti, pasticci, crostate, pizze, salse, sapori, aceti, conserve, «il modo di fare trionfi», «di ben imbandire le tavole», «di conoscere i gradi qualitativi» dei singoli alimenti insieme col nome dei loro «inventori», nonché un catalogo di frutti e di vini, a cui segue, nella seconda parte, un trattato per confezionare i piatti di magro.
Anch'egli fa menzione alla cucina napoletana proponendo ad esempio la minestra «di foglia alla napoletana» per la quale si dilunga in molte precisazioni. «Benché io n'abbia fatto menzione nelli piatti compositi, m'è parso bene metterla nel numero delle minestre, per esser questa squisita e molto in uso. Si piglia una gallina e si mette a bollire insieme con la vacca, quando questa sarà più che mezza cotta, accioché la gallina non si disfaccia; e vi si mettono dentro lingue salate di porco, ma bollite, carne salata che prima sia stata a mollo, una soppressata (= sorta di salume posto in pressione tra due tavole), un pezzo di filetto, un pezzo di ventresca di porco, ossa mastre, annoglio (= o anduglia, dal francese andouille, sorta di salsiccia ripiena di carne a pezzetti e di intestini tagliuzzati), un pezzo di lardo battuto con il suo sale, a proporzione; e quando saranno le sopradette robbe cotte, metterai il brodo che raccoglierai dentro un tegame, tagliando le sopradette robbe in fette e la gallina ancora o cappone; tenendo ogni cosa da parte, metterai nel brodo un terzo della sudetta robba tagliata, e poi v'aggiungerai torzi ripieni, cocuzze (= zucche) e cipolle parimenti ripiene di vitella battuta con rossi d'ova, un poco di mollica di pane ammollato nel brodo, passarina, pignoli, a suo tempo, acini d'agresta e il pastume (= impasto) che avrai fatto servirà per riempire tutte le sopradette robbe, con le solite spezierie ed erbette odorifere. Vi potrai anche aggiungere la lattuga o la scarola ripiena; l'altra carne che sarà restata, l'anderai accomodando con ordine dentro il tegame o in un altro vaso, framezzata con fettarelle di fianchetto ripieno, con zizza (= mammella) prima bollita, salsiccia spaccata per metà; levatele la sua pelle, fette sottili di cascio parmiggiano grattato, fonghi di Genova, prima dissalati e bolliti con ossa mastre, avvertendo che sia il brodo buono, che sarà una minestra di buon gusto e si potrà fare in qualsivoglia conversazione (= adunanza conviviale) che sempre riuscirà gustosa quando si osserveranno le sudette regole; e molte volte io ho fatto portare queste minestre in tavola con tutto il tegame che riescono di vista e miglior sapore e si possono spartire nei piatti».
Egli ci insegna inoltre «Per fare mezzo barile d'acqua di passi (= chicchi passiti), così chiamata in Napoli». «Piglierai sedici libre di passi d'uva doraca (= duracina), li spaccherai con diligenza; dopo che gli avrai spaccati li metterai dentro un mezzo barile, tenendo preparata una caldaia d'acqua al fuoco e quando bolle bene la metterai dentro al mezzo barile, otturandolo bene e rotolandolo più volte di sotto e di sopra accioché li passi si mescolino; dapoi lo lascerai stare vicino al fuoco per un giorno et una notte; dapoi lo metterai alla tramontana, in luogo dove non dia il sole e dopo otto o dieci giorni, secondo il freddo, si puole incominciare a bere perché avrà pigliato il razzente (= il sapore piccante). Quest'acqua è pettorale (= giova alle affezioni di petto) e cordiale; si può bere liberamente senza dubbio di nocumento; si deve fare l'inverno per li tempi freddi».
Con il XVII secolo la cucina francese esercita dunque il suo predominio su quella italiana il che si desume anche dal lessico gastronomico dei grandi cuochi come il napoletano Vincenzo Corrado (1734-1836) che, pur rivelando una grande fedeltà alla pratica tradizionale della cucina italiana, non disdegna di usare nella sua opera Il cuoco galante termini francesi talvolta italianizzandoli a costo di comprometterne la comprensione.
In quest'opera troviamo una grande quantità di ricette napoletane come quelle dei timballi, degli ortaggi, dei pesci e della caccia con varie proposte come ad esempio per cucinare i tordi: «La carne di questi uccelli è d'ottimo sapore; anzi la stimano tra gli volatili la migliore. La loro stagione principia nel mese di ottobre e dura infino a gennaio.
Tordi arrostiti. La vivanda più gustosa che si può fare delli tordi sarà farli arrostiti in vari modi; cioè involti in rete di porco o bardati con fette di lardo o pur con presciutto intorno e foglie d'alloro o in fine addobbati con olio e sugo di limone e poi serviti con sapor di capparini. Si fanno ancor arrostiti alla parmigiana, ingrassati bene di butiro e serviti con crosta di parmegiano.
Imboracciati (= impanati e fritti). Bianchiti i tordi in brodo, si taglieranno le ale e piedi, dopo s'infarinano, si dorano in uova ed involtati nel pane e parmegiano grattato, si fanno friggere per servirli con salvia fritta intorno.
Alla villana. Si cuociono in istufa i tordi con buon sugo di carne, un senso d'aglio, foglie d'alloro, salvia e timo; serviti con salsa di presciutto e scalogne trite.
Alla fiorentina. Cotti i tordi in brodo di manzo con aglio, e alloro, si servino con colì di fagioli bianchi, ove siano delli spinaci passati in butirro.
Per entremets. Si cuociono i tordi in vino con alloro, cannella e garofani intieri e dopo si servino freddi con salsa d'uva passa e malvasia».
Ma non possiamo certo dimenticare le preziose preparazioni offerteci da Francesco Leonardi nel suo L'Apicio moderno, una vera enciclopedia gastronomica, ordinatamente distribuita in sei tomi e preceduta da una introduzione in cui per la prima volta è tracciata una storia della cucina italiana, ricostruita dall'epoca della romanità fino ai tempi dell'Autore, attraverso i momenti della sua maggiore fortuna - durante l'età del Rinascimento - e attraverso la successiva involuzione fino al determinarsi dell'egemonia esercitata dalla gastronomia francese. L'autore, «già cuoco di Sua Maestà Caterina II imperatrice di tutte le Russie», mostra una notevole esperienza delle cucine straniere, non solamente di Russia, ma anche di Polonia, Turchia, Germania, Inghilterra e Francia, largamente documentabile nel suo ricettario e nell'ampio catalogo dei vini forestieri; ma nel medesimo tempo egli mette in evidenza il proprio interesse a registrare gli usi gastronomici delle varie regioni e città italiane, così da fornirci un ricco repertorio in materia.
Della cucina napoletana ricorda la «Zuppa di ogni sorte d'erbe alla napolitana», ma anche le rissole (= frittelle) e molti altri piatti a lui ben noti.
Solo con l'opera titolata La nuova cucina economica di Vincenzo Agnoletti si incomincia a prendere in considerazione la cucina più povera di tutte le regioni italiane e una versione della pizza alla napoletana che ricorda quella che tutti conosciamo: «Quando avrete formata una pasta come quella pasquale (= specie di pasta frolla), ma con una libbra di strutto ed una libbra di zucchero, vi mescolerete fettine di prosciutto, di formaggio cavallo (= caciocavallo), di ventresca e di provature (= formaggi freschi fatti con latte di bufala); indi formerete la pizza e la farete cuocere come le altre».
Mentre per la pizza rustica suggerisce: «Quando avrete messo il lievito con due libbre di farina, dopo dieci ore ve ne aggiungerete altre due libbre, quattro uova, quattr'once di zucchero, un poco di sale, dieci once di strutto, acqua tiepida a discrezione e fettine di provatura, di prosciutto o di ventresca. Indi fate la pizza e quando sarà lievitata fatela cuocere e servitela come il solito. Questa pasta la potrete fare anche senza nessun uovo».
Altra ricetta che compare in questa opera è quella delle «zeppole (= crostoli) di semolella (= pasta di semolino) alla napolitana», una sorta di frittelle fritte nello strutto e spolverate di zucchero.
Oggi la differenziazione fra cucina opulenta e cucina popolare è quasi inesistente essendo spariti molti piatti con l'evolversi del gusto ed essendosi raccorciate le distanze di gusto e possibilità economiche fra i vari strati della popolazione, anche se spesso non è difficile ricostruire la derivazione delle varie preparazioni.
La cucina napoletana, così solare, fantasiosa, spettacolare, non si è sottratta alla regola di entrare nella letteratura: scrittori come Matilde Serao, Giuseppe Marotta, Eduardo De Filippo, poeti come Salvatore Di Giacomo ne hanno immortalato piatti e invenzioni, protagonisti e carattere. Così, parlare della cucina napoletana (che riassume quella dell'intera regione) senza citare questi nomi illustri è quasi impossibile; cosa dire del «ragù» dopo che Marotta gli ha dedicato uno dei capitoli più memorabili dell'Oro di Napoli? Preparazione tradizionale, domenicale o comunque festiva, questa salsa che, insieme alla pizza, è all'apice della gastronomia partenopea, esige innanzitutto interminabile cottura. «Fin dalle primissime ore del mattino un tenero vapore si congeda dai tegami di terracotta in cui diventa bionda la cipolla ed esala le sue nobili essenze il rametto di basilico appena colto sul davanzale». Così inizia il poemetto in prosa che Don Peppino dedica all'impareggiabile salsa che condirà quello che è a Napoli il vero cuore di qualunque pasto: la pastasciutta. Perché il risultato sia quello che deve essere e non della comune carne col pomodoro, il ragù non deve mai essere abbandonato a se stesso in alcuna fase della cottura, perché «un ragù negletto cessa di essere un ragù e anzi perde ogni possibilità di diventarlo». Scelto con cura il pezzo di carne - né magro né grasso - che sta alla base della ricetta, lo si mette nel tegame sorvegliando dapprima la rosolatura e poi spalmando il primo strato di conserva. Ne seguono altri «a scientifici intervalli», entrano quindi in gioco il fuoco e il cucchiaio: lentissimo il primo, esperto il secondo, sensibile a capire il momento in cui intervenire. E finalmente ecco la zuppiera fumante pronta sulla tavola e il ragù, rosso e aromatico, che «pulsa nei maccheroni come il sangue nelle vene».
Alla base di esso, lo si è visto, c'è un ingrediente che merita un discorso a sé, il pomodoro. Vivido, vitaminico, disponibile a unirsi a mille altri sapori, viene spontaneo chiedersi come fu possibile farne a meno per tanti secoli. L'uso del pomodoro è infatti relativamente recente: giunse in Europa e quindi in Italia dal Perù o dal Messico dopo la scoperta dell'America e per due secoli fu ignorato dal punto di vista alimentare. Lo si trova citato per la prima volta nel 1743 in un canto di carnevale, ma solo tra la fine del secolo XVIII e l'inizio del XIX divenne comune a molte ricette e la coltivazione si diffuse fino a diventare una delle più importanti della Campania.
A Napoli - è stato detto - il pomodoro è "una mezza religione"; certo, la qualità è eccelsa e l'uso frequentissimo. A Napoli è sorta l'industria conserviera che ha portato in tutto il mondo i celebri "pelati" e il "concentrato" di pomodoro. Molti sono poi i metodi casalinghi di conservarlo, dai pomodori in bottiglia, fatti a pezzi oppure passati per essere sempre pronti alle utilizzazioni più varie, alla famosa "conserva" in cui il pomodoro viene stracotto fino a diventare una crema cupa e vellutata.
Pomodori freschi e sugosi si adagiano sulla pizza perché il loro sapore si unisca in stupendo accordo a quello della mozzarella e delle acciughe. La pizza, la creazione più celebre di tutta la cucina napoletana, è una invenzione molto più remota dell'epoca del pomodoro, anzi è tra le più antiche in assoluto. Un primo tipo di pizza si faceva in epoca romana, ed era una specie di focaccia di grano. Ma la pizza per antonomasia, cioè squillante di pomodoro, sfrigolante e allegra come nessun altro cibo, ha poco più di duecento anni. Diventò presto popolarissima presso il popolino, ma anche presso baroni e principi: dominava i ricevimenti dei Borboni, che ne erano ghiotti, e Ferdinando IV arrivò a farla cuocere nei forni di Capodimonte, gli stessi dai quali uscivano le preziose ceramiche artistiche.
Anche i sovrani piemontesi si lasciarono conquistare da questo umile cibo meridionale: fu per Margherita di Savoia che nel 1889 il pizzaiolo Raffaele Esposito creò la patriottica pizza "tricolore" in cui bianco, rosso e verde erano costituiti da mozzarella, pomodoro e basilico e che da allora si chiama appunto "pizza Margherita". Esistono numerose varietà di pizze: ai quattro formaggi, ai frutti di mare, alle olive, alla marinara, ma la presenza del pomodoro, almeno a Napoli, è pressoché fissa.
Oggi, pizza e pizzeria sono dovunque nomi magici: all'estero spesso sono le insegne di locali dove si cerca di ricostruire l'idea o l'illusione, pittoresca e oleografica, dell'Italia lontana.
Poiché la pizza piace a tutti, è economica, riempie lo stomaco e "risolve" insomma un sacco di occasioni, la si fa spesso anche in casa con facilità. È buona e allegra, certo, ma non sarà mai come quella del gran forno a legna, creata dal pizzaiolo che, con mano abilissima, appiattisce il disco di pasta, più sottile al centro che ai bordi, e con rapidi gesti vi sparge gli ingredienti già preparati e vi versa l'olio, poi con un gran colpo secco la mette sulla pala e la fa scivolare nel forno al calore giusto, rigirandola perché si cuocia tutta in modo uniforme finché, con un altro colpo, la riprende con la pala e finalmente la pone sul piatto del fortunato che, prima ancora di mangiarla, può gustarne con gli occhi tutta la calda, esuberante bellezza. Il napoletano, se è un vero esperto, la piega in quattro "a libretto" e se la mangia con le mani.
Altre glorie della cucina napoletana che è cucina metà di terra (pasta, verdure, latticini) e metà di mare (pesce, crostacei, molluschi), sono i piatti a base dei magnifici ortaggi dell'agro campano, come la parmigiana di melanzane o i peperoni ripieni. Sostanziosi, veri "piatti forti", sono numerosi e sempre ottimi. Fra le ricette di pesce, primeggiano i «polpi alla luciana», così detti dal popolare rione di Santa Lucia nel quale nacquero, cotti con peperoncino piccante e l'immancabile pomodoro. Fra la sontuosa mercanzia dell'ostricaro, personaggio tipico della strada e del "teatrino" napoletani, sono le "vongole veraci" a meritare la palma: carnose e profumate danno luogo a una squisita zuppa e condiscono "maccheroni" e "vermicelli".
La varietà delle paste alimentari napoletane è tale che giustificherebbe un capitolo a parte. La pasta non è stata inventata a Napoli, ma certo qui è stata portata ai massimi gradi di perfezione e qui, per la precisione a Gragnano, a soli pochi chilometri dal capoluogo, si è trovato il modo di essiccarla e conservarla, dando origine così alla produzione industriale dell'alimento più italiano che ci sia. Poiché la materia prima è il grano duro, molto difficile da impastare e lavorare, i napoletani si affidano con la massima fiducia alle loro paste industriali e non ritengono affatto - come in altre regioni - che la pasta per essere buona debba essere fatta in casa. In realtà la pasta a Napoli è straordinaria sia per la qualità sia per la perfezione della cottura, che deve essere giustamente "al dente", e del condimento. Dalla classica "pummarola" al semplicissimo "aglio e uoglio" fino a tutta la rassegna dei sughi con accompagnamento di verdure o di frutti di mare e all'apoteosi del ragù, la creatività meridionale dà qui una smagliante prova di sé.
Presenza importante della cucina napoletana e campana sono i latticini. Provoloni, scamorze, caciocavalli, ricotte compaiono spesso sulla tavola ed entrano nella preparazione di molti piatti, ma la regina dei formaggi è la "mozzarella", il fresco, dolce, tenero prodotto a pasta filata del latte di bufala. La produzione è concentrata soprattutto nella zona di Aversa, Battipaglia, Capua, Eboli, Sessa Aurunca: chiunque capiti da queste parti troverà qualcosa che resterà impresso nella sua memoria gustativa! Una varietà di mozzarella sono i "burrielli", bocconcini di tipo più dolce conservati in anfore di terracotta e immersi nel latte. Purtroppo la vera mozzarella di bufala è ormai rarissima, perciò si usa spesso latte vaccino: il risultato si chiama "fiordilatte", meno ricco nel sapore.
Esiste poi nella gastronomia napoletana una serie di piatti che risalgono alla tradizione di corte o a quella vera e propria "scuola", di ispirazione francese, che fu perseguita da un gruppo di famiglie nobili specialmente nell'Ottocento. Si crearono così ricette in cui si incontravano raffinate componenti francesi e ingredienti e usanze tipicamente napoletani. Ne vennero fuori invenzioni molto elaborate e spettacolari: i padroni di casa affidavano la regia e la confezione dei loro pranzi a cuochi esperti che divennero famosi. Tra le loro preparazioni la più celebre è il «sartù», un timballo a base di riso ripieno di fegatini di pollo, salsicce, polpettine di carne, mozzarella, piselli e condito con ragù, o, nella versione "in bianco" con besciamella. Un altro trionfale timballo è quello di maccheroni al ragù.
Certo queste creazioni elaborate e preziose rimasero lontane dalla semplice cucina del popolo, che continuò tuttavia a mietere successi nei vicoli e nelle trattoriole sul mare come nei ristoranti e negli alberghi di lusso. Il napoletano, scugnizzo o barone, ama gli stessi maccheroni con la "pummarola 'n coppa" o con le vongole, magari mangiati all'aperto, col sole che filtra da un pergolato e la vista del celeberrimo golfo negli occhi.
I più classici dolci di Napoli sono quelli che si mangiavano una volta: gelati, «babà», spumoni, «sfogliatelle», «taralli» e la magnifica «pastiera», il dolce del tempo che va dall'Epifania a Pasqua, con la ricotta fresca e i fiori d'arancio, la cannella e i canditi.
La cucina a Napoli è fatta soprattutto di "esterni", di spettacolo, è esperienza da condividere con qualcuno che faccia la parte del pubblico. Dai "friggi e mangia", i molti prodotti della rosticceria locale, ai vari "passatempi" che vengono offerti nei chioschi o sulle bancarelle e che si consumano in qualunque momento della giornata (sono frutti di mare, pizzette, tartine, frittelle). Napoli mostra come sempre a chi vuol vederla la sua millenaria, leggendaria fantasia.